Sono molte le interpretazioni che si potrebbero dare della clamorosa presa di posizione con cui Enrico Letta ha schierato il Partito democratico al fianco del Movimento 5 stelle nel chiedere una (ulteriore) revisione della riforma della Giustizia. Per brevità, e per amor di pace, ometterò quelle in cui un giudice prevenuto potrebbe ravvisare i reati di diffamazione, ingiuria e forse anche qualcosa di peggio.
Con un supremo sforzo di equanimità, fingerò di prendere in considerazione l’improbabile ipotesi che la mossa di Letta sia compiuta, se non proprio d’intesa con il governo, con l’intenzione di facilitare un rapido ridimensionamento della frattura, fare un po’ di ammuina e in qualche modo fornire agli alleati una onorevole via di fuga dal vicolo cieco in cui si sono cacciati, così da evitare una piena deflagrazione del conflitto e una rottura insanabile nella maggioranza.
Tra le molte ragioni per dubitare di una simile lettura, c’è però la coincidenza temporale con quella che il ministro Roberto Cingolani, a quanto riporta il Corriere della Sera, avrebbe definito una «imboscata» ai danni del governo. Pochi giorni fa, infatti, l’asse Pd-M5s ha mandato sotto l’esecutivo nelle commissioni Ambiente e Affari costituzionali sul decreto Recovery, contenente la governance del Pnrr e le semplificazioni.
Soprattutto però è il tono generale dell’intervista a Repubblica con cui Letta si allinea ai Cinquestelle – o meglio, si fa per dire, a Giuseppe Conte – che lascia pochi margini d’incertezza circa il valore strategico della mossa.
Colpisce, sebbene non sia certo la prima volta, la differenza di trattamento riservata a Matteo Renzi («Io non caccio nessuno, ma far parte di una coalizione significa starci dentro con diritti e doveri, anche di lealtà»), verso il quale Letta continua a ostentare una freddezza tanto più significativa a confronto delle generose parole sempre riservate a Conte. Una generosità che a tratti sconfina nella menzogna pura e semplice, per esempio quando il segretario del Pd assicura di non essere minimamente disturbato dall’ostinato silenzio dell’Avvocato del popolo sulla legge Zan, perché «in queste settimane Conte si è concentrato su questioni interne al M5s» e perché «i loro parlamentari stanno facendo con noi un lavoro comune per far passare la Zan». Come è noto, pochi giorni fa in Senato la legge Zan ha rischiato di venire affossata proprio grazie alle numerose assenze nel Movimento 5 stelle.
Non voglio soffermarmi sugli aspetti più deprimenti di questa vicenda, sulle ragioni cioè squisitamente non politiche che sembrano muovere i dirigenti della sinistra e determinare le loro scelte. Anche perché posso arrivare alla stessa conclusione – il prevalere, nella politica del centrosinistra, di ragioni extra-politiche – passando da un’altra parte, facendo un giro leggermente più largo e deprimendomi quindi un po’ meno. Abbiate la pazienza di seguirmi un secondo.
Breve riassunto delle puntate precedenti. Enrico Letta è la stessa persona che alla nascita del governo guidato da Mario Monti, nel 2011, da vicesegretario del Pd, inviava al presidente del Consiglio un biglietto che recitava testualmente: «Mario, quando vuoi dimmi forme e modi con cui posso esserti utile dall’esterno. Sia ufficialmente (Bersani mi chiede per es. di interagire sulla questione dei vice) sia riservatamente. Per ora mi sembra tutto un miracolo! E allora i miracoli esistono! Enrico». Quando i potenti obiettivi dei fotografi appostati in Parlamento catturarono il contenuto del messaggio, che finì su tutti i giornali, il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, respinse ogni polemica dichiarando: «Io posso solo ribadire quello che abbiamo sempre detto: ci dica cosa dobbiamo fare, noi ci siamo messi a disposizione del governo». E non meno calde erano le parole riservate a Monti anche da Massimo D’Alema, in tutte le sue interviste di allora e persino in un libro-intervista uscito all’inizio del 2013, in piena campagna elettorale, nonostante il capo del governo avesse ormai deciso di farsi il suo partito, in concorrenza con il centrosinistra. «È evidente che nessuna prospettiva di trasformazione potrà esservi se non nel rispetto dei vincoli europei e dunque di quella politica di rigore alla quale Monti ci ha riportato dopo le avventure berlusconiane», dichiarava D’Alema nel libro, intitolato «Controcorrente» (sì, proprio come quello appena pubblicato da Renzi). «Ma su questo terreno il centrosinistra ha già dimostrato di essere affidabile».
Ecco l’incredibile paradosso di questa singolarissima stagione. Letta, Bersani, D’Alema e tutti coloro che a sinistra, nel 2011, si spellavano le mani per Monti, un dichiarato elettore di Forza Italia (nel 1994), impegnato ad applicare la più classica e la più severa delle politiche di austerità (certo non per suo capriccio, dati condizioni e rapporti di forza in Europa, ma anche con piena responsabilità e convinzione), oggi storcono il naso e trascinano i piedi, a dir poco, davanti al governo di Mario Draghi, che non solo non promuove alcuna forma di austerità, ma al contrario guida il più grande piano di investimenti pubblici nella storia d’Italia (certo non per suo capriccio, dati condizioni e rapporti di forza in Europa, ma anche con piena responsabilità e convinzione).
Qualunque concezione si voglia adottare della distinzione tra destra e sinistra, tra socialdemocratici e conservatori, tra liberisti e statalisti, non c’è categoria della politica, dell’economia o della filosofia contemporanea che consenta di venire a capo di un simile paradosso.
Servirebbero altri concetti. Altre parole. Altre parolacce.