Fino al 2011 era il membro della famiglia Gheddafi più apprezzato in Occidente. Aveva studiato alla London School of Economics, si accompagnava a intellettuali e studiosi, parlava benissimo inglese, ma soprattutto mostrava un sincero interesse nei confronti della democrazia e dei diritti umani. Saif al-Islam Gheddafi, secondo figlio di Muammar, era il personaggio su cui convergevano le speranze di gran parte del mondo occidentale. O almeno, di chi sperava in un passaggio – lento, ma sicuro – del Paese verso una forma di governo più aperta e libera.
Poi sono arrivate le rivoluzioni arabe: Saif, all’inizio le accolse con grande favore. Parlava di riforme da fare, incoraggiava i governi degli altri Paesi coinvolti ad ascoltare le richieste del popolo e intraprendere il cammino verso la democrazia. Eppure, quando fu il momento decisivo, la sua posizione risultò molto diversa.
In un discorso televisivo attesissimo, il 20 febbraio 2011, Saif salutò le proteste degli altri Paesi come una «tempesta democratica», mentre quelle che avevano avuto luogo qualche giorno prima in Libia, in particolare a Bengasi, erano da attribuire a gruppi di fanatici pericolosi. Il Paese, spiegò nella rabbia generale, non era pronto per queste cose. I libici fuggiti all’estero approfittavano della confusione per fomentare la violenza, cercando di colpire il regime. «La Libia non è come l’Egitto e la Tunisia. Le sue radici tribali fanno sì che di fronte alla violenza possa dividersi in tanti micro-stati ed emirati». Nello stesso discorso predisse la distruzione dei confini, le migrazioni di massa e il rischio di dare spazio alle organizzazioni terroristiche.
La risposta a quelle parole fu rabbiosa: le proteste andarono avanti e la rivoluzione divenne presto una guerra civile, in cui il tentativo del regime di soffocare gli oppositori venne bloccato dall’intervento degli eserciti stranieri. Gheddafi stesso rimase ucciso, in una esecuzione sommaria condotta dai membri di una delle tante milizie che si erano create nel frattempo.
Saif, catturato mentre cercava di fuggire, fu fatto prigioniero, per sua fortuna, da un gruppo di ribelli indipendentisti, che decise di tenerlo vivo conoscendone il valore come arma di trattative o mezzo per ottenere riscatti. Venne custodito nella cantina di una casa dispersa nella zona di Zintan (luogo di fieri oppositori del regime di Gheddafi), restando sotto il controllo dei rapitori anche dopo le elezioni del 2012.
La fortuna di Saif Gheddafi fu che, nel giro di qualche mese, le sue previsioni si avverarono. Nonostante il primo sforzo elettorale, il Paese si spaccò in mille pezzi. Le milizie continuarono a farsi la guerra tra loro, le armi dell’antico esercito di Gheddafi finirono nelle mani dei terroristi, l’Isis pose le fondamenta della sua succursale africana, le migrazioni cominciarono a sconvolgere il Paese e il resto dell’Europa. In tutto questo, le violenze non sono mai cessate. Ogni tentativo è sfociato in nuovi scontri, con conseguenze tremende su tutta la popolazione.
È a quel punto che i rapitori decisero di cambiare strategia. Saif non era più un nemico, ma un alleato. La sua analisi – che all’inizio era stata considerata espressione di un regime che non voleva cadere – si era rivelata esatta. E dopo dieci anni di combattimenti e distruzione era arrivato il momento di dargliene atto. Saif, a quel punto, fu liberato.
E, come rivela a Robert F. Worth in questo incredibile articolo del New York Times Magazine, che dopo anni di ricerche lo raggiunge nel suo rifugio, sta preparando il suo ritorno nella politica.
Rispetto a 2011, Saif è invecchiato. La barba è grigia e la mano ferita da una scheggia. Da tempo ha riorganizzato l’antico Movimento Verde, il partito del padre, ed è riuscito con una serie di trattative, a spianare la strada per una sua possibile candidatura alle elezioni di dicembre. Su di lui pende una condanna a morte, emanata da un tribunale di Tripoli nel 2015, oltre che un mandato di cattura del Tribunale Penale Internazionale, per il suo coinvolgimento nella repressione violenta delle proteste nel 2011. Ma non è preoccupato: se dimostra di avere il consenso del popolo dalla sua parte, spiega, la situazione diventa negoziabile.
Il fatto è che, a quanto pare, il consenso ce l’ha. In più parti del Paese, in quasi tutti gli strati sociali, il sentimento prevalente è quello della nostalgia. Tornare indietro, al periodo di Gheddafi, è il nuovo sogno (o meglio: la nuova illusione). Secondo un sondaggio (non si sa quanto affidabile), almeno il 57% della popolazione – di una parte della Libia – voterebbe per lui. I suoi slogan, dal sapore populista, sono un attacco nei confronti dei politici attuali: corrottissimi, a suo dire. Incapaci di gestire la situazione, fallimentari nella difesa degli interessi economici: «Esportiamo gas e petrolio all’Italia. Ne illuminiamo metà. E la popolazione locale ha continui blackout di energia». Il succo di tutto è Make Libya Great Again, che nella sua concezione significa riportarla sotto le mani del clan Gheddafi.
Una sua vittoria sarebbe salutata da più parti anche sul piano internazionale. Constituirebbe una legittimazione degli autocrati dei Paesi arabi – da sempre ostili alle Primavere – e, al tempo stesso, piacerebbe molto anche alla Russia. Mosca, impegnata (come tutte le maggiori potenze) sul campo libico, diventato negli anni una proxy war di livello quasi planetario, vedrebbe nel ritorno di un membro della famiglia la definitiva umiliazione dell’avversario americano. Sul punto – cioè sul sostegno da parte di protagonisti stranieri, preferisce non esprimersi.
In generale, la sua aura misteriosa contribuisce ad accrescerne il successo. Essere rimasto fuori dagli scontri, militari e politici, degli ultimi anni, gli permette di presentarsi sotto una luce benigna, cosa che non possono fare i suoi due maggiori avversari: il 58enne Fathi Bashagha, ministro dell’Interno per il governo di Tripoli fino al 2020, e il generale Khalifa Haftar, che controlla metà del Paese. Il primo, nonostante i suoi lodevoli sforzi per il disarmo delle milizie, si è dimostrato troppo succube delle forze militari di Misurata. Il secondo, nel suo tentativo di conquistare Tripoli tra il 2019 e il 2020, ha contribuito in maniera determinante nella distruzione di parte dell’area, rendendo impossibile ogni eventualità di riconciliazione.
Anche Saif è considerato un candidato divisivo. Il suo rifiuto di condannare il regime del padre, comprese le scelte più violente, potrebbero portare a una recrudescenza nei mesi vicini alle elezioni. Se la Libia vive, da almeno un anno, una situazione di pace relativa – ci sono meno controlli, la polizia sembra tenere in pugno la situazione dei rapimenti, il commercio sembra aver ripreso il respiro – il timore di tutti è che si riveli, anche in questo caso, momentanea. L’appuntamento delle elezioni, cercate e al tempo stesso temute, appare cruciale.
Saif, nonostante la sua presenza-assenza, conta di presentarsi. Ma il fatto che abbia già ricevuto minacce di morte e un killer sia stato pagato 30 milioni di dollari per farlo fuori lascia intuire che, nei prossimi mesi, le cose potrebbero peggiorare. La sua carta è sempre la stessa: parlare la lingua della democrazia (molto apprezzata all’estero). Ma è molto probabile che, se dovesse vincere, cercherà una restaurazione, forse meno brutale, dell’antica jamahiriya del padre.