Post-primavera arabaDieci anni dopo la morte di Gheddafi, l’Africa subsahariana è ancora nel caos

Le testimonianze dei migranti della rotta libica raccolte dal Financial Times raccontano le violente ripercussioni della deposizione del leader libico, avvenuta un decennio fa. Oggi, gli effetti della rivolta sono visibili in buona parte del territorio circostante

LaPresse/Mauro Scrobogna

Relegata nel retro di un camion con altre 25 persone per un viaggio di tre giorni attraverso il deserto del Sahara. Quella di Precious, ragazza nigeriana che si racconta in un’intervista al Financial Times, è una storia di abusi e sofferenze.

Quando nel 2017, appena diciottenne, le era stato offerto di raggiungere l’Europa per lavorare come sarta, credeva si trattasse di un’incredibile opportunità. «Mi hanno ingannata e ho sofferto», dice oggi. Raggiunta la Libia, il sogno europeo è sfumato: dopo aver affrontato la tratta desertica, l’hanno bloccata nel paese costringendola a prostituirsi.

Precious è riuscita a fuggire e tornare a casa con un volo charter delle Nazioni Unite solo nel 2019. La sua vicenda ha un lieto fine, diversamente da quelle di centinaia di migliaia di migranti che sono passati attraverso la Libia nell’ultimo decennio. «Dicono che da quando lui è morto, tutto sia cambiato». “Lui” è Muammar Gheddafi. Racconti di brutalità e soprusi sono comuni tra i migranti africani da quando il dittatore libico è stato deposto nel 2011. Il periodo che è seguito ha fatto precipitare l’intera area subsahariana nel caos e nel conflitto. Ma perché?

La Libia è stata a lungo un punto di riferimento per i profughi diretti a nord. Dopo l’insurrezione che ha rovesciato Gheddafi il loro numero è aumentato vertiginosamente, e il problema perdura: stando all’Irc (International Rescue Committee), più di 700mila migranti sono attualmente bloccati nel paese, in un limbo a metà tra l’Africa continentale e il nostro continente. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), la Libia rappresenta il punto di partenza per il 90% dei migranti che vogliono raggiungere l’Europa.

La storia di Precious si interseca con quella di un’altra vittima della tratta africana, Kenneth Michael, che oggi fa parte di un gruppo di sostegno per i migranti di ritorno. «Sono tornato nel 2017 ed ero mezzo morto», racconta. Michael aveva provato ad attraversare il Mediterraneo tre volte durante i suoi due anni in Libia; ogni volta, il suo gommone veniva sistematicamente catturato dalla guardia costiera e lui finiva in prigione, dove era costretto a chiamare la famiglia per trasferire la somma di denaro necessaria per il rilascio.

Michel non rappresenta un caso isolato: la guardia costiera libica è accusata di gravi violazioni dei diritti umani. Ciononostante, è un partner chiave negli sforzi anti-immigrazione dell’Unione Europea. Stando all’Irc, negli ultimi otto mesi 23mila persone sono state intercettate in mare libico e riportate sulla terra ferma. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni riporta come più di 1.300 persone siano morte solo quest’anno nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Più del doppio rispetto allo stesso periodo nel 2020.

Migranti in fuga dalla Libia nel Mediterraneo (AP Photo/Santi Palacios)

Anche questa situazione è frutto della fine di Gheddafi (e del suo governo durato 42 anni). L’impatto per la Libia è stato devastante: turbolenze e disordini si sono susseguiti sin dalle contestate elezioni del 2014, quando gruppi armati e bande criminali hanno iniziato a proliferare sfruttando la debolezza dello Stato. Ma l’eco delle ripercussioni si è propagata anche oltre i confini nazionali e ha riguardato realtà limitrofe: paesi come Mali, Niger e Ciad stanno attraversando tuttora una fase di conflitti proprio a causa della perduta stabilità libica.

A marzo 2021 un governo di unità nazionale ha prestato giuramento come parte di un processo caldeggiato dalle Nazioni Unite e la nuova amministrazione avrà il compito di traghettare la Libia fino alle elezioni di dicembre. Un summit tra i ministri degli esteri dei paesi vicini (tra cui Egitto, Tunisia, Sudan, Ciad e Niger) è stato convocato a inizio settembre, per discutere della situazione e in particolar modo della gestione e del ritiro dei mercenari “a piede libero”, un fenomeno che rappresenta un grosso problema sociale per tutta la zona del Sahel, la fascia semiarida sotto il Sahara.

Dalla Libia al Mali
La regione del Sahel ospita alcuni dei paesi più poveri al mondo ed è stata a lungo un territorio politicamente instabile: per questo, la primavera libica non può essere considerata come la causa scatenante delle sue turbolenze, quanto più un acceleratore delle dinamiche attualmente in corso. Negli ultimi anni, Gheddafi aveva agito come regolatore, limitando i flussi migratori in cambio di concessioni dall’Unione Europea e soprattutto dall’Italia. Ma dopo la sua morte, l’ingranaggio ha smesso di funzionare, compromettendo anche l’equilibrio delle realtà circostanti.

Tra le nazioni che hanno maggiormente subito questa transizione, c’è il Mali. Il paese è stato teatro di numerose ribellioni nel corso degli anni: i combattenti – sia tuareg che jihadisti – sono gli stessi che hanno destato preoccupazione nel summit di settembre. Si tratta di ex mercenari che si sono fatti le ossa in Libia (armati dell’arsenale di Gheddafi) e alla fine sono riusciti a occupare la zona settentrionale, mettendo in stallo il governo nella capitale Bamako.

Da allora i gruppi estremisti si sono radicati sempre di più nella regione, trasformandola in uno dei fronti più importanti per Al Qaeda e per l’Isis. Le cellule terroristiche hanno sfruttato le tensioni etniche esistenti in entrambi i paesi e hanno riempito i vuoti lasciati da uno Stato negligente. Oltre a questo, in Mali e in tutto il resto del Sahel «l’economia del contrabbando è stata in grado di espandere la sua capacità e la sua latitudine logistica e operare con maggiore impunità», come scritto in un rapporto del 2018 della Global Initiative Against Transnational Organized Crime.

Studenti africani liberati dopo essere stati rapiti dalla cellula terroristica Boko Haram (AP/Sunday Alamba)

Nuove frontiere e terrorismo
Facciamo un passo indietro. Il “Giorno della rabbia” dei giovani sovversivi libici nel febbraio 2011 è partito dai social media: ispirato dallo sgretolamento dei regimi in Egitto e Tunisia, il movimento di protesta ha velocemente coinvolto tutto il paese. L’insurrezione popolare è stata ulteriormente alimentata dall’intervento occidentale, guidato dalla Francia di Nicolas Sarkozy. Una decisione controversa, osteggiata – tra gli altri – anche dall’allora vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden. Le proteste sono continuate fino al 20 ottobre dello stesso anno, quando le forze ribelli hanno trovato Gheddafi fuori dalla città di Sirte e lo hanno giustiziato sommariamente.

Negli anni successivi, gli estremisti hanno usato l’arsenale ereditato dalle forze militari di Gheddafi per espandere le loro attività nel Sahel. È «ancora oggi la più grande riserva incontrollata di munizioni al mondo», afferma David Lochhead, ricercatore presso la Small Arms Survey, un’organizzazione di ricerca, monitoraggio e peacekeeping delle Nazioni Unite.

Lochhead spiega come l’Unione Europea non avesse previsto le conseguenze del terremoto sociale e politico che è seguito: per correre ai riparti, ha speso miliardi di euro in sicurezza, sviluppo e aiuti alle frontiere in tutta l’Africa centro-occidentale per arginare il flusso migratorio. Lo scorso anno, la Francia ha speso più di 900 milioni di euro nell’operazione Barkhane, la sua missione militare nel Sahel, che ha coinvolto circa 5mila militari da quando ha preso il via per reprimere l’insurrezione nel nord del Mali nel 2013.

Non sono mancate le misure per arginare i flussi: tra le altre, l’Unione ha stabilito una sorta di “nuova frontiera” nel mezzo del deserto del Niger, pagando al governo del paese 1,6 miliardi di euro in aiuti tra il 2016 e il 2020, per impedire ai migranti di viaggiare su rotte secolari che attraversano il Sahara. In questo modo però, li ha spinti a intraprendere itinerari più pericolosi, causando indirettamente la morte di migliaia di persone.

L’esodo dei mercenari libici dopo la morte di Gheddafi ha innescato un effetto domino: avere 14mila/15mila uomini ben addestrati e senza nulla da fare è stato nocivo. «Ha creato uno sciame di persone che scendeva nell’Africa subsahariana verso paesi che non erano preparati», spiega Bisa Williams, ambasciatrice americana in Niger tra il 2011 e il 2013. Per alcuni di questi soggetti, la disponibilità di risorse e l’alta formazione dei gruppi terroristici ha rappresentato un’offerta allettante. «E così, a poco a poco, si sono affiliati, alimentando la forza lavoro di Isis e Al Qaeda».

La morte di Déby in Ciad
Nel vicino Ciad, il leader autoritario Idriss Déby aveva affrontato per anni le ribellioni, molte delle quali partite dalla Libia. Déby, che era presidente da quando aveva preso il potere in un colpo di stato del 1990, aveva progressivamente consolidato la sua posizione grazie al sostegno politico e finanziario ricevuto dall’Europa, che lo considerava il principale baluardo contro i jihadisti nel Sahel. Tra i gruppi più fondamentalisti e sanguinosi della zona c’è Boko Haram, la cellula nigeriana affiliata all’Isis il cui leader Abubakar Shekau è stato recentemente dichiarato morto.

Il 20 aprile di quest’anno, però, Déby è stato ucciso da una compagine ciadiana formata da ex mercenari di Khalifa Haftar, generale ribelle della Libia orientale. Secondo gli esperti regionali, il gruppo aveva l’obiettivo di organizzare una seria offensiva nella capitale N’Djamena.

Ciad: Macron partecipa al funerale del presidente Idriss Déby (AP/Christophe Petit Tesson)

La stabilità del Ciad era fondamentale per la Francia, tanto che nel 2019 aveva effettuato un’operazione militare sul territorio, inviando aerei da combattimento Mirage per colpire un convoglio di sovversivi diretto verso la capitale. Ma quando la fazione ribelle del Fact (Fronte per il cambiamento e la concordia in Ciad) con sede in Libia si è avvicinata a N’Djamena all’inizio di quest’anno, l’Eliseo non è intervenuto.

Attualmente, il Ciad rischia di finire in una spirale di disordini e violenze. Oggi, tristemente, risuona con fare profetico una dichiarazione di Déby risalente al 2011. In quell’occasione, poco prima dei moti libici, il capo di stato aveva affermato: «se Gheddafi se ne va, avremo un sacco di guai».

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