Discese in campoPer vincere le elezioni bisogna avere il fisico: Manny Pacquiao e altri atleti in politica

Il pugile (e parlamentare) filippino ha annunciato che correrà per la presidenza del suo Paese nel 2022. Da Arnold Schwarzenegger a Valentina Vezzali, fino a Imran Khan, già molti altri sportivi hanno provato a reinventarsi con incarichi governativi. Talvolta con successo, anche grazie al loro allenamento pregresso nell’esposizione ai riflettori

AP / Lapresse

«Sono un combattente e lo sarò sempre, dentro e fuori dal ring. Il nostro Paese ha bisogno di lottare contro la povertà, abbiamo bisogno che il governo serva il nostro popolo con integrità, compassione e trasparenza». Con una frase che sembra costruita in laboratorio, un ibrido tra il populismo di sinistra, il nazionalismo e l’agonismo del campione, qualche giorno fa Manny Pacquiao ha annunciato la sua candidatura alla presidenza delle Filippine alle elezioni del 2022.

Pacquiao è uno dei più grandi pugili della storia. Ha vinto 12 titoli mondiali ed l’unico ad aver vinto in otto diverse categorie di peso: è un uomo che sembra non poter fare a meno di pensare alla sua vita come se fosse un incontro di boxe.

Nelle Filippine Pacquiao è amatissimo e non solo per i suoi successi sul ring. Ormai è anche un veterano della politica. Si è candidato per la prima volta alle elezioni parlamentari nel 2007, ma senza successo. Poi, dal 2010 al 2016, ha fatto parte del Congresso delle Filippine e nel 2016 è stato eletto in Senato.

«La boxe è l’unico mezzo che ho per sostenere la mia famiglia e aiutare coloro che ne hanno bisogno, la politica invece per me è una vocazione», ha detto in passato.

La vocazione politica non è poi così rara, tra gli atleti. O meglio: sul reale valore della vocazione politica di ognuno bisognerebbe indagare a livello emotivo e psicologico, ma di sicuro Pacquiao non è il primo e non sarà l’ultimo. Molti sportivi sono passati dal campo – dal ring, dal tappeto o quel che è – alla politica, chi con successo, chi meno.

C’è una spiegazione intuitiva, immediata, e forse per questo anche superficiale, che legittima il tentativo di costruirsi una seconda carriera in politica, dopo quella sportiva, e non riguarda in alcun modo la capacità amministrativa o di gestione: gli atleti spesso godono di una buona reputazione, sono molto conosciuti e hanno tra i potenziali elettori tante persone che hanno già fatto il tifo per loro in passato.

Si può ripescare uno spunto interessante anche in questo vecchio articolo della Brown University: sintetizzando, l’idea alla base di questo testo è che alcune caratteristiche rendono gli atleti automaticamente più eleggibili di altri candidati agli occhi del pubblico, come la riconoscibilità del nome e la capacità di finanziare le proprie campagne elettorali autonomamente.

Ma non solo: i politici sono costantemente sotto i riflettori, tanto nelle dichiarazioni pubbliche quanto al momento di prendere una decisione pratica, e l’unico altro campo in cui puoi abituarti a questo grado di attenzione quasi maniacale da parte dei media e dell’opinione pubblica è lo sport.

Pacquiao nella sua carriera politica ha già perso delle elezioni e poi ne ha vinte delle altre ma, soprattutto, ha saputo reinventarsi più volte: dal 2007 a oggi ha attraversato tutto lo spettro politico, andando dal Partito liberale all’Alleanza nazionalista unita (centrodestra), passando per il Partito democratico (nella sigla Pdp-Laban, di centrosinistra) a cui ha fatto ritorno nel 2016 e di cui oggi è presidente.

Gli studi accademici ci dicono che in teoria gli atleti si avvicinano alla carriera politica a partire da posizioni prettamente conservatrici. La spiegazione è riassunta in un articolo pubblicato sul San Francisco Chronicle da Dean Rader, professore alla S.F. University, in cui si parla del legame tra lo sport e la destra politica: «Lo sport di squadra si basa sulla gerarchia e, come l’esercito o la chiesa, mette in primo piano vittoria, dominio, trionfo. Si crea una dicotomia bene/male, vincitori/vinti, giusto/sbagliato. Invece complessità, contraddizione, incertezze, per un atleta significano morire, agonisticamente parlando. Vedere il mondo in questo modo tende a creare legami con un’ideologia conservatrice».

Dall’altro lato, però, sempre più spesso negli ultimi anni abbiamo visto atleti appoggiare battaglie sociali tipiche della sinistra tradizionale. Ne sarebbe una prova anche il diffondersi dell’attivismo che ha coinvolto tanti professionisti, dal giocatore di football americano Colin Kaepernick – che per primo si è inginocchiato durante l’inno nazionale statunitense per protestare contro le discriminazioni nei confronti degli afroamericani – o l’endorsement di LeBron James per la campagna elettorale di Hillary Clinton nel 2016, o i ripetuti contrasti dell’attaccante del Manchester United Marcus Rashford con i tories del governo di Boris Johnson in Regno Unito.

Tra i nomi citati fin qui non figura ancora nessun italiano, è vero, ma non mancano esempi di ex atleti che hanno intrapreso la strada della politica anche dalle nostre parti. In realtà l’elenco sarebbe anche piuttosto lungo: si va dall’eurodeputato Gianni Rivera, a Josefa Idem che per due mesi è stata ministro per le Pari opportunità, lo Sport e le Politiche giovanili nel governo Letta; e poi ancora Giovanni Galli e Manuela Di Centa, fino all’attuale sottosegretaria del governo Draghi, con delega allo Sport, Valentina Vezzali.

Il più delle volte, però, in Italia si tratta di figure che restano ancorate a ruoli esclusivamente settoriali, legati appunto a deleghe allo sport. Mentre all’estero c’è una casistica più varia. E non è un caso che la candidatura di Pacquiao arrivi da un Paese della regione dell’Indo-Pacifico: Wikipedia ha addirittura una pagina dedicata agli sportivi indiani passati in politica, con una lista di ex giocatori di cricket che sono diventati parlamentari, sindaci, consiglieri e segretari.

Dopo aver citato l’India, però, per par condicio andrebbe nominato anche l’attuale presidente del Pakistan, Imran Khan, campione del mondo di cricket con la nazionale del suo Paese, di cui è stato capitano e uomo simbolo.

C’è però un altro dettaglio, un fattore fondamentale da notare nelle candidature politiche degli ex atleti. Si tratta forse dell’aspetto più superficiale di tutti: l’estetica. E non è poi un discorso tanto superficiale. Per un esempio più che valido è sufficiente guardare a uno dei primi ex atleti che sono passati con successo dalla carriera sportiva a quella politica: Arnold Schwarzenegger – culturista e campione a Mr. Olympia 1980 – è stato presidente del Consiglio per il fitness e lo sport durante l’amministrazione di George H. W. Bush nel 1989. Ma non si è fermato lì: la sua carriera ha avuto un’evoluzione straordinaria, sorprendente per certi versi: dal 2003 al 2011 è stato governatore della California e ha quindi guidato l’esecutivo del terzo Stato più grande degli Stati Uniti, una delle prime cinque o sei economie mondiali su base statale.

Non sarà stata, da sola, la corporatura massiccia e muscolosa – per quanto ridimensionata rispetto ai periodi giovanili – a determinare il successo in politica dell’uomo che è stato Terminator e Conan il barbaro. Ma una mano, il suo fisico, potrebbe avergliela data: uno studio del 2011 pubblicato su Political Psychology ha rilevato che gli elettori «sono orientati istintivamente verso i candidati con maggior appeal, anche se alcuni sono in grado di “correggere” il voto, consapevoli del pregiudizio. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i candidati “in forma” sono stati considerati in una luce più positiva».

D’altronde, in politica l’estetica conta e non c’è bisogno di Schwarzenegger per capirlo. La storia della politica americana offre un esempio ben più noto.

Il dibattito tra Kennedy e Nixon del 1960 è passato alla storia non solo come il primo scontro televisivo tra due candidati alla Casa Bianca, ma anche perché dimostrò l’importanza dell’apparenza in certi contesti: Jfk fu in grado di trasmettere un’immagine tranquilla e sicura di sé, mentre Nixon apparve decisamente meno sereno, quasi debilitato, e non è un caso che quello sia stato considerato il vero turning point di quella campagna presidenziale.

Dopo il dibattito Kennedy-Nixon questo tipo di confronti si è ripetuto costantemente, strutturandosi e perfezionandosi, con i candidati preparati e consapevoli di dover curare ogni gesto durante le risposte alle domande più affilate. E chi per anni, per tutta una vita, ha fatto del suo corpo una macchina perfetta per la boxe, il basket, il calcio o qualsiasi altra disciplina, può essere avvantaggiato. Certo, poi viene il difficile. Si dovrebbero avere anche contenuti e competenze. Ma questa è tutta un’altra storia.