Quella fra la Polonia e le istituzioni europee è una battaglia in carta bollata, che si combatte a colpi di lettere e sentenze, dichiarazioni d’intenti e atti formali. L’ultimo atto è il deferimento del governo di Varsavia alla Corte di Giustizia europea per non aver rispettato l’indipendenza dell’autorità di controllo dei media. Il culmine di questo confronto sarà invece una sentenza del Tribunale Costituzionale polacco, attesa per il 22 settembre e invece rimandata al 30 del mese.
Nel caso «K 3/21» la corte dovrà stabilire, in sostanza, la supremazia o meno del diritto comunitario su quello nazionale, decidendo cioè se i giudici polacchi devono applicare le leggi dell’Unione europea anche se in contrasto con la Costituzione polacca. È una decisione che avrà grosse ripercussioni, sia a livello simbolico che pratico. «Se il Tribunale rifiuterà il primato del diritto dell’Ue, la Corte di Giustizia europea potrebbe reagire rimuovendo la Polonia dalla cooperazione giudiziaria nell’Unione», spiega a Linkiesta Jakub Jaraczewski, coordinatore all’istituto di ricerca Democracy Reporting International ed esperto del tema. Se il diritto europeo non prevale su quello polacco, infatti, il Paese non è più allineato con gli altri Stati membri e andrebbero ridiscussi tutti gli accordi in materia. «Ad esempio, la Corte può decidere di non far estradare in Polonia le persone soggette a mandato d’arresto europeo», afferma Jaraczewski.
Per il verdetto, però, bisognerà attendere ancora. Dopo aver posticipato l’udienza una prima volta, dal 31 agosto al 22 settembre, la giudice Julia Przyłębska ha deciso un nuovo rinvio, perché «nuovi elementi devono essere analizzati dal Tribunale». Secondo Jaraczewski, c’è una chiara strategia dilatoria, dietro a cui si nasconde una posizione attendista dell’esecutivo polacco, timoroso di andare allo scontro frontale con le istituzioni dell’Ue. «Credo che il Tribunale costituzionale stia aspettando istruzioni dal governo. Non credo che in un caso così delicato, possa muoversi senza un avvallo politico».
Dalla fine del 2016 il Tribunale costituzionale è sotto l’influenza del partito al potere, Diritto e Giustizia (PiS), guidato da Jarosław Kaczyński. Come scrive la docente di Stato di Diritto dell’università polacca di Toruń, Aleksandra Kustra-Rogatka, «il Tribunale legittima le violazioni della Costituzione perpetrate dalla maggioranza parlamentare, autorizzando di fatto degli atti del governo». La “conquista” di quest’organo, teoricamente deputato a garantire il rispetto della carta costituzionale, è stato in effetti uno dei primi passi della controversa riforma della giustizia cominciata dal PiS sei anni fa.
Il Tribunale costituzionale polacco è formato da 15 giudici scelti dal Parlamento e nominati per un mandato di nove anni dal presidente della Repubblica, carica ottenuta da Andrzej Duda nell’agosto 2015. Lo stesso anno, il PiS, sostenitore di Duda nella corsa alla presidenza, vince le elezioni parlamentari. Il momento è perfetto per la sostituzione dei membri della Corte con giudici compiacenti: disponendo di un Tribunale costituzionale a proprio favore, si aggira infatti il rischio d’incostituzionalità dei provvedimenti adottati. Grazie a questo cruciale passaggio, il governo polacco ha potuto portare avanti quella riforma giudiziaria che è stata oggetto di varie procedure d’infrazione da parte della Commissione e sentenze sospensive dalla Corte di giustizia dell’Ue.
Proprio le varie fasi di questa riforma, che per Commissione e Parlamento europeo mette a rischio lo Stato di diritto nel Paese, hanno scatenato il lungo conflitto tra Varsavia e Bruxelles.
Dal 2017 è attivata la procedura dell’Articolo 7, che se portata a termine comporta la perdita temporanea del diritto di voto di un Paese nel Consiglio dell’Unione europea: in pratica lo strumento dissuasivo più potente a disposizione della Commissione. In quell’anno l’esecutivo comunitario ha deferito la Polonia alla Corte di giustizia europea per una legge sull’età pensionabile dei giudici dei tribunali ordinari, vincendo la causa.
Nel 2018 è intervenuta su una disposizione analoga, riguardante però i giudici della Corte suprema, il cui mandato non ha scadenze temporali: il governo polacco voleva infatti abbassare l’età pensionabile dei suoi membri da 70 a 65 anni, per liberarsi più in fretta dei giudici scomodi. Anche in questo caso la procedura va a segno e la Corte di giustizia europea ha bloccato la norma.
Gli interventi successivi riguardano l’introduzione di una camera disciplinare per i giudici polacchi, un organismo che li renderebbe soggetti a un controllo da parte del potere politico e quindi inclini ad assecondare le volontà del governo, in particolare evitando di presentare ricorsi alla Corte di giustizia europea. La Commissione ha reagito con una nuova procedura d’infrazione e la Corte di giustizia europea ha imposto una sospensione ad interim dell’organo disciplinare, che mina l’indipendenza della magistratura.
Ma questa volta, Varsavia ha risposto alla stessa maniera, cioè attraverso una sentenza. Il Tribunale costituzionale ha deciso il 14 luglio 2021 che le misure ad interim della Corte di Giustizia europea sono incostituzionali: quindi o la Polonia le applica violando la propria Costituzione, oppure rinuncia ad applicarle, violando il diritto comunitario. Da qui nasce il caso «K 3/21», su cui lo stesso Tribunale costituzionale aspetta a pronunciarsi. In parallelo, il governo polacco guadagna tempo e ammorbidisce i toni scrivendo alla Commissione europea una lettera formale in cui annuncia cambiamenti (non ancora concretizzati) alla legge sulla camera disciplinare.
A corredo di questo scontro ci sono le numerose risoluzioni del Parlamento europeo contro l’erosione dello Stato di diritto in Polonia e le manifestazioni formali di preoccupazione per vari aspetti della vita nel Paese: l’indipendenza dei media, il diritto all’aborto, le politiche discriminatorie verso le persone omosessuali. Non manca nemmeno una disputa “ambientale”: martedì 21 settembre, la Corte di giustizia europea ha imposto una sanzione di 500mila euro al giorno alla Polonia per l’estrazione di lignite dalla miniera di Turów, vicino al confine con la Cechia. Proprio il governo di Praga ha presentato ricorso contro le attività della miniera, che inquinerebbero le falde acquifere della zona.
Nel frattempo, quello polacco è uno dei pochi Piani nazionali di ripresa e resilienza che la Commissione europea non ha ancora approvato: forse non è una coincidenza, se (come ha sottolineato il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni) il primato del diritto comunitario è una questione di grande importanza. Se lo scontro dovesse acuirsi, è comunque altamente improbabile che il governo polacco scelga di perseguire la via dell’uscita dall’Ue: Jarosław Kaczyński, il leader di fatto dietro al premier Mateusz Morawiecki, ha escluso categoricamente l’ipotesi, bollando la cosiddetta Polexit come «un’invenzione della propaganda».
È possibile però che la Polonia si trasformi in un membro “zoppo” dell’Ue, secondo l’analisi di Jakub Jaraczewski. «Il pericolo reale di questa strategia del governo è che il Paese venga escluso da specifici settori di cooperazione a causa della mancanza di indipendenza della magistratura. In questo modo, resterebbe parzialmente tagliato fuori dall’ordine legale dell’Ue».