C’è un detto nelle valli piemontesi che dice: Lou sél l’è lou pan e lou pan l’è la vita. La segale in montagna serviva un po’ per tutto: fare il pane, appunto, ma anche la birra, rifornirsi di paglia per la lettiera degli animali, costruire i tetti.
Oggi quando una volta all’anno, come accadeva in passato, il 2 e il 3 ottobre si riaprono gli antichi forni per cuocere, nei forni comunitari dei villaggi alpini, dalla Valle d’Aosta alla Svizzera e Slovenia si celebra la festa transfrontaliera del Pan Ner, il pane di segale, scuro, compatto, dal sapore acidulo. Insieme al pane, naturalmente si festeggia anche l’antico cereale la cui coltivazione, nonostante la sua estrema resistenza a temperature rigide e siccità, dopo gli anni Cinquanta è stata abbandonata a favore di colture più produttive, magari in pianura, magari meccanizzate. Fu allora che quei costoloni assolati che un tempo erano i granai delle valli, furono abbandonati, spesso insieme ai villaggi stessi, convertiti a pascolo e a fienagione.
«Con la sparizione della segale e degli altri grani, anche il paesaggio delle nostre montagne è cambiato» dice Katia Massari che insieme al suo compagno coltiva, nelle terre alte delle Goilles, tra la Valtournenche e il colle di Verrayes, un tempo considerato il granaio della Val d’Aosta a (1500 metri slm), due ettari di campi coltivati a segale locale e farro monococco. «Abbiamo cominciato noi, ma ora, più in basso, c’è anche un altro ragazzo. La maggior parte dei residenti lavora ad Aosta o negli alpeggi, e spesso preferiscono destinare le terre per il fieno. Ma a noi piace fare il pane (hanno L’Agriforno delle Goilles a Verrayes) con la nostra farina e nel nostro mulino». Essere coltivatori prima ancora che panificatori, è infatti l’unico modo per garantire il così detto “pane di filiera”, il pane cioè in cui sono controllati tutti i momenti della produzione.
Sempre in Valle d’Aosta, Laura Paoletti coltiva a 1800 metri, in mezzo ai boschi di Rumiod, la sua segale. La raccoglie a fine estate, poi separa i chicchi da pula e paglia, li pulisce e li mette nei sacchi, prima di macinarli nel mulino in pietra dolomitica fabbricato artigianalmente in Austria. Una macinazione giornaliera, poiché viene macinato solo il quantitativo di farina che serve a produrre il pane per la sua Biopanetteria di Saint Pierre.
Armando Salvetti, titolare di una forneria storica, ha seminato la sua prima segale a fine 2019. Lo ha fatto ritornando alla sua terra d’origine, la Valle Camonica, investendo in territori montani e chiamando a sé le risorse agricole del luogo. Come a Malonno, paese in cui 135 anni aprì il suo primo forno, e a Darfo Boario Terme. Salvetti lo ha definito: «Un ritorno della tradizione camuna in chiave produttiva». Come dire che il pane nero, la farina di segale, per la verità oggi spesso mescolata a fichi, noci, uva o semi vari, erbe aromatiche e spezie, come trigonella, cumino e finocchio (e nel caso di Salvetti utilizzata anche per fare il panettone), rinnovando l’antica frugalità, può essere solo pane di montagna, e solo comunitario. Non a caso, intorno alla segale, ci sono feste, eventi, sagre. Riti che segnano un legame con il territorio radicato, un ritrovarsi in un processo agricolo e rurale che è tutt’uno con l’identità del luogo. Così abbiamo la Festa della Segale a Sant’Anna d Valdieri, la Sagra della Segale in val d’Ossola, il Benedisiù del Toc a Berzo, in Val Camonica… «Lo si fa quel senso di festa che tutti abbiamo provato fin da bambini», dice Damien Charrance. Agronomo, solo per passione è l’unico ad aver riportato un piccolo appezzamento di segale a Gimillan, sopra a Cogne. «Ho recuperato un po’ di semi da un amico in Svizzera, ne ricavo circa 5 etti al metro quadro, e l’uso è solo familiare. Ma quando, nel mese di dicembre, apriamo il forno comune del villaggio insieme alle altre famiglie, per cuocere i pani, almeno usiamo la nostra farina».
Ma c’è anche invece chi fa le cose in grande. Dal 2011, in Alto Adige, c’è il progetto Regiograno che ha l’obiettivo di rilanciare la coltivazione cerealicola laddove, nel 1900, si potevano contare quasi a 30 mila ettari di coltivi a cereali. Oggi, nel ventesimo compleanno dell’iniziativa, gli agricoltori che hanno aderito sono 56, tra Val Venosta, Val Pusteria, Val d’Isarco e monte Zoccolo, arrivando a coprire una superficie di quasi circa 93 ettari, di cui 64,5 riservati alla segale. Tutto è macinato al Molino Merano che per farlo (ogni anno riceve circa 350 tonnellate di cereali) ha predisposto un molino ad hoc. Fra i 56 agricoltori, alcuni, come Anna Folie del Maso Sockerhof o Christian Stecher del Maso Spanglerhof, entrambi a Malles, hanno ripreso da un paio di anni la coltivazione della segale per utilizzare la tecnica della rotazione delle colture.
Fabian Plattner del Maso Haflingerhof a San Genesio invece, ha ricominciato a coltivare una varietà che si coltivava già un’ottantina di anni fa. In mezzo alle spiche ci porta i bambini (il maso è certificato come maso di insegnamento) che così capiscono che prima del pane c’è il grano.