Insegnamenti pandemiciRiprogettare la ventilazione degli edifici per fermare il virus

Una più corretta circolazione dell’aria nei luoghi chiusi non conterrebbe solo il diffondersi del Covid-19, ma potrebbe contribuire a limitare tutte le malattie trasmissibili via aerosol. Un articolo dell’Atlantic invita a valutare l’impatto sul lungo periodo: si potrebbero eliminare dalle nostre vite il raffreddore, l’influenza e altre patologie che diamo per “scontate”

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All’inizio della pandemia si era diffusa una paura generalizzata di toccare qualsiasi superficie, qualunque oggetto, ogni cosa. Sembrava che ogni singolo contatto fisico fosse potenzialmente contagioso. Ci sono voluti mesi di studio, analisi e prove per capire che il pericolo in realtà è nascosto anche nell’aria, che inizialmente avevamo trascurato.

La trasmissione del virus tramite aerosol spiegherebbe perché all’aperto le probabilità di contagio si riducono di molti fattori rispetto a spazi chiusi e poco ventilati, e perché una singola persona infetta può contagiare dozzine di altre persone senza parlare loro o toccarle direttamente.

È una condizione che accomuna il SARS-CoV-2 a tanti altri virus simili. Gli scienziati che hanno riconosciuto presto la minaccia del coronavirus nell’aria lo hanno fatto perché avevano già studiato altre malattie respiratorie, quelle più comuni come l’influenza e il raffreddore che, come il Covid-19, possono trasmettersi in questo modo.

Tuttavia, le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità si concentrano ancora prevalentemente sui droplets – le goccioline che possono uscire dalla bocca quando parliamo – di grandi dimensioni, che però verosimilmente non viaggiano oltre i due metri.

L’insegnamento che potremmo trarre da questo coronavirus potrebbe essere quello di prendere più seriamente anche la diffusione via aerosol di influenza e raffreddore: è possibile ridurre la loro diffusione attraverso un’attenzione diversa all’aria che respiriamo. Oppure, come suggerisce un articolo dell’Atlantic, ci si dovrebbe chiedere: «Perché per tanto tempo abbiamo accettato raffreddori e influenze come elementi inevitabili della vita? Lo sono davvero? Perché non riprogettare anche la ventilazione nei nostri edifici per prevenirli?».

L’analisi della rivista americana, firmata da Sarah Zhang, parte da un presupposto che guarda al futuro: visto che è improbabile che il SARS-CoV-2 sia la causa dell’ultima pandemia trasmissibile per via aerea della storia, allora le stesse misure che possono proteggerci già oggi – se applicate a dovere – potrebbero proteggerci anche dal prossimo agente patogeno sconosciuto.

«Siamo stati tutti inconsapevolmente attaccati da grosse goccioline di saliva che fuoriesce dalla bocca di un oratore troppo entusiasta. Ma l’aerosol è diverso, può formarsi anche quando le corde vocali vibrano per l’aria che fuoriesce, e le particelle liquide più piccole provengono dal profondo dei polmoni, dal tratto respiratorio più profondo: […] forse proprio per questo le minuscole particelle liquide sembrano trasportare la maggior parte del virus e rimangono sospese più a lungo nell’aria a causa delle loro dimensioni. Inoltre, possono viaggiare più in profondità nei polmoni di altre persone quando vengono respirate, e gli studi hanno rivelato che è necessaria una quantità minore di virus per infettare le persone, se queste particelle liquide sono inalate sotto forma di aerosol piuttosto che spruzzate come droplets», si legge sull’Atlantic.

L’Organizzazione mondiale della sanità ha riconosciuto il problema della diffusione del coronavirus  tramite aerosol solo a luglio 2020, e molte linee guida sulla salute pubblica ancora non ne tengono conto. Sembra una questione solo formale, ma non lo è: in alcuni luoghi – l’Atlantic fa l’esempio di tutto il territorio nazionale australiano – bisogna indossare le mascherine per camminare all’aperto, ma la si può togliere per entrare al ristorante. Esattamente il contrario di quanto auspicabile, il contrario di quel che suggerirebbero gli studi scientifici.

Ecco perché, spiega l’Atlantic, «immaginando di dover convivere con questo coronavirus per molto tempo, forse per sempre, come sembra probabile, alcuni scienziati stanno spingendo per reinventare la ventilazione degli edifici e ripulire l’aria interna».

All’inizio del 2021 un’analisi pubblicata su Science firmata, tra gli altri, da Lidia Morawska, scienziata dell’aerosol alla Queensland University of Technology, in Australia, proponeva un «cambio di paradigma» riguardo alla ventilazione interna degli edifici. Perché se è vero che la mascherina e gli altri dispositivi di protezione e prevenzione aiutano, ottimizzare i flussi d’aria in maniera sistemica e sistematica potrebbe essere la soluzione migliore a lungo termine.

L’idea è che se nei luoghi chiusi i virus respiratori si diffondono più facilmente per via aerea, dovremmo iniziare a pensare di riprogettare gli edifici per prevenire questo fenomeno – al netto di costi più elevati per rispettare le nuove esigenze. Dobbiamo solo immaginare diversamente il modo in cui l’aria viaggia attraverso tutti i luoghi in cui lavoriamo, studiamo, giochiamo, respiriamo.

Anche qui a Linkiesta abbiamo affrontato il dibattito – lo scorso marzo – con una prospettiva sulla scuola: il problema principale, in Italia, è che difficilmente gli edifici scolastici – così come sono progettati e costruiti oggi – potrebbero garantire il giusto ricambio d’aria. Allora la soluzione a breve-medio termine deve includere una ventilazione forzata, con i macchinari giusti.

È chiaro però che si tratta di soluzioni solamente temporanee. In futuro bisognerà pensare tutto diversamente. «Gli edifici moderni hanno sofisticati sistemi di ventilazione per mantenere le loro temperature confortevoli e i loro odori piacevoli: perché non usare questi sistemi anche per mantenere l’aria interna libera dai virus?», si chiede l’Atlantic, che propone un cambio di approccio significativo, che può essere letto anche come un aggiornamento: la necessità di innalzare gli standard minimi di sicurezza sanitaria per gli edifici.

In parte questo già accade, ad esempio, negli ospedali e in alcuni laboratori, che dispongono di sistemi progettati per ridurre al minimo la diffusione di agenti patogeni. Ma nessuno ha pensato che le stesse esigenze potessero applicarsi anche ad altri luoghi, solo teoricamente meno sensibili.

«Abbiamo anche bisogno», si legge sull’Atlantic, «di studi più dettagliati per capire come livelli e strategie di ventilazione specifici ridurranno effettivamente la trasmissione della malattia tra le persone. E la sfida che ci attende è il costo. Per convogliare più aria esterna in un edificio o per aggiungere filtri dell’aria sono necessari più energia e denaro per far funzionare il normale sistema di ventilazione: l’aria esterna deve essere raffreddata, riscaldata, umidificata o deumidificata in base al sistema. E se l’aggiunta di filtri richiede meno energia, potrebbe comunque richiedere ventole più potenti per far passare l’aria».

Alla luce di quanto accaduto nell’ultimo anno e mezzo, con milioni di vittime in tutto il mondo e lo spettro di nuovi problemi nascosto dietro la diffusione delle varianti, bisognerebbe chiedersi quanto ancora siamo disposti a sopportare prima di decidere di intervenire alla base.

Vero, i costi potrebbero essere enormi. Ma, come spiega l’Atlantic nella conclusione della sua analisi, l’idea che l’aria che respiriamo in uno spazio chiuso sia un vettore di trasmissione per agenti patogeni potrebbe diventare insostenibile.

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