Le città in cui viviamo sono disegnate dagli uomini per gli uomini. Nel suo saggio “Feminist City: Claiming Space in a Man-Made World”, Leslie Kern afferma proprio questo: gli spazi urbani non tengono conto delle esigenze delle donne. Kern, che è professoressa associata di Geografia e ambiente alla Mount Allison University prende in esame in particolare Toronto e Londra, metropoli di cui ha avuto diretta esperienza per molto tempo, ma il modello è applicabile a tutte le grandi città del mondo: queste ultime nella loro storia si sono sviluppate intorno a un modello di società capitalistico-patriarcale, ovvero intorno alle esigenze del maschio eterosessuale mediamente abbiente. E Milano non fa eccezione.
Con la statua dedicata a Cristina Trivulzio di Belgiojoso Milano ha accolto a settembre la sua prima opera dedicata a una donna e se nel 2021 non si può parlare di avanguardia, uno dei problemi centrali delle questioni di genere riguarda l’urbanistica. Sebbene monumenti e toponomastica siano importanti nell’ottica di ridurre la disparità di genere, è in quello che facilita o meno la vita quotidiana delle donne che si riflette il progresso di una città in questo senso.
Ma a che punto è Milano? Azzurra Muzzonigro e Florencia Andreola hanno provato a rispondere a questa domanda con la ricerca “Sex & the City, una prospettiva di genere sullo spazio urbano”. La città è stata analizzata con una prospettiva di genere grazie a numerosi sondaggi. Il progetto, promosso dall’Urban Center del Comune di Milano in collaborazione con Triennale Milano, si concluderà tra qualche mese, mentre a novembre avrà uno sbocco pratico con la pubblicazione del primo anno di ricerche nel volume “Milano, Atlante di genere”, ovvero una serie di mappe che provano a leggere la città attraverso diverse lenti dalla prospettiva delle donne.
«Il nostro obiettivo è quello di fornire uno strumento teorico-pratico per trasformare in azioni per la città gli insegnamenti di studiose come Leslie Kern e Caroline Criado Perez», spiega Azzurra Muzzonigro. «La mappatura è stata realizzata prendendo in considerazione diversi macro-temi: lo spazio pubblico in termini di mobilità, di rappresentazione di genere, quindi toponomastica e statuaria femminile, di sicurezza e accoglienza nei confronti di quelle donne che subiscono violenza, ma anche dal punto di vista della sanità e dei servizi legati alla vita delle donne».
Quali dati abbiamo a disposizione? «Diverse ricerche internazionali ci dicono che donne e uomini usano la città in maniera diversa: questo succede come riflesso del lavoro di cura (dei figli, degli anziani, della casa) generalmente a carico delle donne. Gli uomini, che sono meno soggetti a questo tipo di compiti, hanno degli spostamenti più lineari, di tipo pendolaristico. La mobilità delle donne, come riflesso delle varie responsabilità legate alle attività di cura, tende invece ad essere più frammentata, locale e pedonale».
Una lente è quindi quella del trasporto pubblico, quali sono le altre? «Un grosso tema purtroppo in Italia è ancora la violenza di genere, che molto spesso avviene in casa, quindi è importante misurare lo stato di salute delle reti anti-violenza, degli sportelli di ascolto e dei luoghi di accoglienza. Anche il nodo della sanità è molto importante: abbiamo mappato quali ospedali in città praticano l’interruzione di gravidanza e la presenza di consultori, sia pubblici che privati. L’altro aspetto molto importante è la presenza sul territorio dei servizi a sostegno della vita delle donne come asili nido, parchi gioco, luoghi per l’allattamento sicuro, bagni pubblici (questo balza meno all’occhio ma una ragazza ha molti più problemi di un ragazzo se non riesce a trovare un bagno pubblico)».
Milano può considerarsi una città a misura di donna? «Nel complesso Milano, rispetto ad altre città italiane, è messa meglio: questo soprattutto come riflesso del fatto che il tasso occupazione femminile è nettamente superiore rispetto al resto delle altre città italiane».
«Noi abbiamo fotografato la città allo stato attuale e l’abbiamo comparata con quelli che sono i modelli europei più avanzati da questo punto di vista: ovvero Vienna e Barcellona, cercando di desumerne delle lezioni e dei suggerimenti da consegnare alla al Comune di Milano». Ad esempio? «Il primo e più importante è quello di strutturare questo discorso all’interno della pubblica amministrazione, perché adesso è ancora un discorso molto sfilacciato, che risponde in maniera spot a delle sollecitazioni puntuali. Barcellona ad esempio ha un dipartimento di gender mainstreaming, che è trasversale a tutti gli assessorati e finanziato con l’1% dei fondi di ciascuno, che stabilisce l’agenda delle politiche pubbliche rispetto alle questioni di genere».
La prima a riconoscere che la strada è ancora lunga è Diana De Marchi, ex presidentessa della commissione per le Pari opportunità del Comune di Milano, che nel Beppe Sala bis è stata eletta in Consiglio comunale. «C’è ancora molto da fare contro violenza e stereotipi di genere, questo purtroppo è un fatto, la violenza sulle donne è una piaga ancora drammatica, e poi a livello di urbanistica: mancano totalmente luoghi di aggregazione sicuri per le donne. Vanno anche potenziati i trasporti: l’obiettivo è quello di farlo prendendo come base i risultati della ricerca “Sex and The City” e ispirandoci al modello della sindaca di Parigi Anne Hidalgo della città da 15 minuti (Hidalgo sostiene che in contesto urbano sostenibile il lavoro, i negozi, l’assistenza sanitaria, l’istruzione, il benessere, la cultura, lo shopping e il divertimento dovrebbero essere idealmente tutti raggiungibili entro quindici minuti da casa propria, a piedi o in bicicletta). L’esigenza di cambiare la città è diventata sempre più forte nel post emergenza sanitaria».
Si possono fare alcuni esempi? «A Milano mancano marciapiedi percorribili con dei passeggini e da chi ha delle condizioni di mobilità ridotta, nelle nuove metropolitane gli ascensori sono previsti, ma nel resto della rete sotterranea sono molte le stazioni che devono essere aggiornate in tal senso. Dobbiamo intervenire affinché il modello di progettazione della città siano uomini e donne».
Qualcosa è già stato fatto o messo a calendario? «A livello di amministrazione comunale abbiamo introdotto il linguaggio di genere: tutti i referenti dei diversi assessorati sono stati sensibilizzati sull’utilizzo delle parole per quello che riguarda i documenti prodotti dal Comune, con un corso di formazione di un anno. Usare la giusta terminologia, che la lingua italiana ha per le professioni al femminile, significa riconoscere il ruolo delle donne nella società nei loro diversi ruoli e competenze. Seguendo l’esempio di Bologna abbiamo poi introdotto il bilancio di genere che, dopo un anno di sperimentazione, dalla prossima consiliatura verrà introdotto come strumento del Comune di Milano».
In cosa consiste esattamente il bilancio di genere? «È uno strumento che serve a garantire che tutti i soldi di ogni assessorato vengano allocati pensando ai bisogni di uomini e donne. Prima di stanziare fondi per un nuovo trasporto verrà condotto uno studio: quanti uomini lo usano? Quante donne? Ho il budget per una nuova infrastruttura, a chi serve? Voglio finanziare un’attività sportiva: vado incontro a chi? Uomini o donne? Se verrà sfruttata principalmente dagli uomini cosa faccio per le donne? L’indagine preliminare serve per monitorare le esigenze di genere prima che venga stanziato un impegno economico. Prima non c’era uno strumento in grado di dare dei numeri precisi sui quali ragionare: il bilancio di genere serve a capire come indirizzare le risorse in maniera paritaria».
E a livello di toponomastica, come siamo messi? «Se non ancora bene stiamo migliorando: ho inaugurato più vie con nomi di donne negli ultimi due anni che in tutta la mia carriera politica, l’ultima è stata Fernanda Pivano, ma l’obiettivo è quello di formare una commissione dedicata».
Tutti questi sono chiaramente dei passi avanti, anche se in ogni caso ai margini di questo ragionamento rimangono diversi soggetti che, tanto quanto le donne, hanno bisogno di tutela, attenzione e cura. La strada per arrivare a un modello di città veramente inclusiva è lunga, ma non infattibile.