Non l’avevo considerataIl gran libro di Bacà e la natura violenta dell’essere umano

L’aggressione è un aspetto che la società occidentale cerca di negare e rimuovere, ma la soluzione migliore è imparare a controllare la rabbia, come cerca di fare il riluttante dottor Ricci, protagonista di “Nova” (Adelphi), l’ultimo romanzo dello scrittore marchigiano

di Michael Diane Weidner, da Unsplash

Tutti ricordano la furia omicida di Adam Kabobo, il 38enne ghanese che, l’11 maggio 2013, uccise a picconate tre passanti a Milano, in zona Niguarda. Pochissimi, allora, avevano notato un particolare: l’uomo, nelle ore precedenti, aveva assaltato anche altre persone, senza armi, che erano riuscite a sfuggire agli attacchi. La cosa strana è che nessuno manda segnalazioni alle autorità. Perché?

La spiegazione (tra le altre) è raccontata all’inizio di “Nova”, il secondo libro dello scrittore marchigiano Fabio Bacà pubblicato da Adelphi: si trattava di persone che, a causa dello stile di vita della società occidentale, erano impreparate al trauma di un’aggressione brutale. Non significa che la cosa non venga messa in conto, al contrario. Vuol dire che «tra la presa d’atto di un fatto spiacevole e la sua metabolizzazione emotiva c’è un abisso». E “Nova” conduce il lettore proprio lì.

È il racconto della vita tranquilla del dottor Davide Ricci: famiglia a posto, moglie fedele e figlio sveglio (anche se un po’ timido), due gatti, un cane. Una vita da buon borghese, passata tra l’ospedale e la casa in legno ecosostenibile appena fuori dalle mura di Lucca, con qualche grana sul lavoro e un problema di vicinato. Poi accade l’imprevisto: la moglie Barbara viene molestata in un ristorante-pescheria da un tizio ubriaco sotto gli occhi del figlio. Il marito è congelato dalla paura, soltanto l’intervento violento di uno sconosciuto risolve la situazione. Per il dottor Ricci, umiliato dal suo essere vigliacco è l’inizio di un percorso. Di più, è una svolta che lo porta a scoprire il senso della violenza, fino ad allora rifiutata per indole e per principio.

È il filo sotterraneo che collega la vicenda, reale e terribile, di Adam Kabobo a quella fittizia del dottor Ricci. Le varie sottotrame – le fisime alimentari della moglie, gli innamoramenti del figlio, gli scontri con il capo dell’ospedale – avvolgono l’incontro tra il dottore e il salvatore della moglie, che si rivela essere una sorta di monaco zen. Da questa nuova amicizia passa la rivelazione, la presa di coscienza, l’inquietudine di fronte a un potere distruttivo che alberga in ognuno. Occorre controllarlo, ma per farlo bisogna conoscerlo e, a differnza di come impone la società, anche alimentarlo.

È un paradosso, insomma: rispecchia quello del caso Kabobo (perché non hanno fatto segnalazioni alla polizia?) e accompagna il lettore fino alle pagine finali, in un crescendo di tensione ben costruito. All’inquietudine del dottore, immerso in atti di psicopatologia quotidiana, corrisponde quella del lettore, sempre più a contatto con quella che appare una verità scomoda: la negazione della violenza imposta dalla società è un traguardo, ma è anche, almeno in parte, un tradimento della natura umana. Se c’è sempre stata, sempre ci sarà. Se non può sparire, tornerà. Se può esplodere, irrazonale e potente, bisogna sapere come controllarla.

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