Tifavo per Carlo Calenda. Non perché è l’unico candidato nella storia delle elezioni mondiali ad avere un carattere persino più brutto del mio. Non perché gli voglio così male da volerlo perduto in un’impresa impossibile oltreché inutile quale tentare di governare Roma. Tifavo per Carlo Calenda perché mi annoio più facilmente del Bertinotti interpretato da Corrado Guzzanti, ed era l’unica sorpresa possibile in elezioni scontatissime.
Tifavo per Carlo Calenda nonostante i moltissimi tratti impresentabili della sua personalità fossero metà delle ragioni per cui non poteva vincere. L’altra metà era l’efficientismo totalmente antiromano, come scrivevo una vita fa.
Lui si compiaceva nel paragonarsi a Draghi, anche nel comizio finale a piazza del Popolo e – nonostante Draghi non sia quella specie di teppista incontinente che è Calenda sui social: la scomposta risposta di Calenda a Carofiglio è una roba che Draghi non sognerebbe neanche in un sogno lisergico – non è un’analogia del tutto infondata: neanche Draghi verrebbe eletto, oggi. Uno come Draghi può solo venire nominato, oggi, non certo eletto. Uno che pretende l’elettorato sia adulto, oggi, non lo vota nessuno, nessuno facente parte d’un elettorato determinatissimo a non essere adulto.
L’opposizione a Calenda, da parte della sinistra di Twitter (Twitter è il collegio in cui s’è più discusso di Calenda, negli ultimi mesi), è stata una buona sintesi dell’approccio suscettibile alle candidature. Quello parlava della movida (parola di rara orrendità), e la risposta dell’Intellettuale Romano era sostanzialmente: tu non ti devi permettere di dirci che non dobbiamo pisciare sui portoni del centro allorché sbronziiii, tu sei di destraaaa.
Ma il punto, come sempre, non è destra e sinistra, ma essere adulti di quando esistevano gli adulti o essere adulti della nostra generazione, quella dei genitori montessoriani per i quali i divieti sono un grave sopruso.
L’abuso del concetto di «élite» – evoluzione naturale dell’idea distorta per cui un supplente col mutuo può essere definito senza mettersi a ridere «radical chic» – viene da lì: dal pensare che sia un prepotente destrorso chiunque osi esprimere un punto di vista senza precisare ogni due parole che lo dice «rispettosamente», e che qualunque cazzata sia stata detta da altri è stata detta «giustamente», nell’epoca in cui «inclusivo» è il fantasma che si aggira non solo per l’Europa.
Ho visto rappresentanti dell’intellettualità romana sostenere che, per essere Roma inclusiva, la Casina Valadier avrebbe dovuto avere prezzi popolari. La risposta a Maria Antonietta oggi sarebbe mettere le brioche a un euro. Il che è bizzarro, in un’epoca così fissata con la narrazione (storytelling, come dicono quelli che ci tengono a farci sapere che hanno fatto inglese alle medie).
La narrazione più interessante non è quella di Versailles che esclude i poveri né dei poveri che danno l’assalto alle stanze dei ricchi: la narrazione più interessante è quella dei ricchi contro i ricchi, delle élite che si sbranano tra loro, di una Borsa in cui sono quotati sia i leoni sia i gladiatori, sia i tori sia i toreri.
In quel capolavoro che è la quarta puntata della terza stagione di Succession (che, dopo un’inaccettabilmente lunga sosta pandemica, arriverà su Sky a fine novembre), c’è una nitida illustrazione di come la lotta di classe – nell’epoca in cui in occidente i bisogni primari sono perlopiù assicurati alle masse – sia essenzialmente una lotta tra ricchi. Tra varie sfumature di miliardaritudine, tra varie sfumature di stronzaggine.
La seconda stagione era finita – i più devoti alla più bella serie degli ultimi anni se ne ricorderanno – con uno dei figli del patriarca che lo tradisce, svelandone le malefatte durante una conferenza stampa. Senza bisogno di spiattellare come e se la situazione si ricomponga, vi dirò che – come prevedibile – gli azionisti della multinazionale non sono felici di questo sputtanamento: se nella realtà Facebook perde trenta miliardi in Borsa solo perché non funziona per qualche ora, non richiede grande esercizio d’immaginazione capire come in tv possa soffrire la WayStar dopo che Kendall Roy ha accusato di una sleppa di reati papà Logan.
Quindi Logan e uno dei figli (non importa quale: come tutti i ricchi di seconda generazione, gli eredi Roy sono intercambiabili in quanto a scemitudine) vanno da un azionista persino più fantastiliardario di loro. E quello li bullizza come un Calenda qualunque. Li umilia, li maltratta, e alla fine li fa perdere per una scorciatoia in mezzo al nulla, e camminano troppo a lungo, e batte il sole, e Logan ha ottant’anni, e si sente male. E intanto il fantastiliardario chiama l’autista e gli dice: io so benissimo dove sono, quindi non mi sono perso, sei tu che ti sei perso – ed è a questo punto che l’Intellettuale Romano noterebbe il suo essere sprezzante: solo quand’è da datore di stipendio a servitù, non quand’è da fantastiliardario ad altro fantastiliardario.
Nel frattempo, a New York, un altro dei fratelli ha convocato un barbone (che chiama «senzatetto», perché è un miliardario stronzo ma è anche un americano postmoderno, consapevole che contano le parole, mica i fatti). Vuole usarlo contro l’altro fratello, per tirar fuori la storia di quella sera in cui quello, strafatto, pagò il barbone per tatuarsi il suo (del ricco stronzo) nome sulla fronte.
E, mentre sei lì che ti chiedi se sia più grave usare un poveretto per divertirti o usare un poveretto per vendicarti di tuo fratello (ma in entrambi i casi pagandolo, dettaglio che un Intellettuale Americano considererebbe attenuante e uno Romano aggravante), succede che il fratello rimasto a New York chiami quello partito col padre e lo accusi d’essere responsabile del colpo di calore paterno. Si è sentito male perché non avevi l’Evian pronta, dice in tutta serietà; e così resti lì, ad ammirare il genio e a invidiare gli intellettuali di paesi in cui la priorità non sia calmierare i prezzi dell’Evian. Anche se forse ormai pure lì, proprio come nella Roma che cantava De Gregori fingendo di cantare d’amore, si gioca per vincere e chi vince è perduto.