Cinquant’anni di film alle spalle, una carriera segnata da trionfi e premi, un nuovo lavoro in arrivo (il remake di “West Side Story”) e a dicembre il 75esimo compleanno. Steven Spielberg è il grande regista americano. I suoi film sono entrati nella storia, spesso nel cuore di molti, tanto da piegare anche i critici più duri.
Come scrive su Haaretz Uri Klein, la sua arte riflette una visione del mondo molto chiara, con valori e convinzioni precise: l’universo spielberghiano coincide con gli Stati Uniti d’America. «Lo si vede nelle realtà fisiche presentate nei suoi film, che coincide spesso con le periferie americane. E nei temi alla base di molti suoi lavori: la perdita della stabilità familiare e le storie di bambini in difficoltà».
Spielberg, in questo senso, contiene moltitudini. C’è quello degli esordi, che in “Duel”, uscito nel 1971, tiene in sospeso lo spettatore con la storia, semplicissima, di un automobilista inseguito senza motivo da un camion di cui non si riesce a vedere il guidatore. Lo sfondo è il deserto del Mojave, in California.
C’è quello di “Sugarland Express”, del 1974, che lo inserisce – anche se giovanissimo – nel gruppo di registi che tra gli anni ’60 e ’70 danno vita al nuovo cinema americano, salutando la vecchia Hollywood. La stessa critica Pauline Kael lo elogia: il suo è «uno dei debutti cinematografici più straordinari di sempre».
C’è, però, quello che decide di cambiare subito registro e puntare nel 1975 sullo “Squalo”, con un sodalizio destinato a durare a lungo con George Lucas che inaugura l’era dei blockbuster. La conferma arriva con “Guerre Stellari”, nel 1977, che dà una scossa a tutto l’ambiente.
La sua consapevolezza è robusta fin da subito (c’è da dire che il primo lungometraggio lo gira nel giardino di casa, con i fratelli come attori) e i temi che interessano la sua sensibilità sono ben definiti: il racconto delle persone normali, con tutti i loro limiti, che si trovano in situazioni straordinarie e riescono a fare cose eroiche, oppure la fantasia delicata dell’infanzia e la necessità di figure genitoriali definite. Si riverberano in tutta la sua cinematografia, dal realismo magico di “Incontri ravvicinati del terzo tipo” e di “E.T, l’Extraterrestre” fino a lavori più complessi come “Shindler’s List” e “Salvate il soldato Ryan”, passando per film più divertiti come la tetralogia di Indiana Jones (il rapporto tra i personaggi di Harrison Ford e Sean Connery).
I suoi film sono costruiti con gli stessi principi. Uno di questi è quello di non lottare con la tradizione – elemento che li rende più semplici e popolari, in grado di essere seguiti e compresi da tutti. Un altro è la volontà di assecondare la capacità del cinema di creare illusioni e, anzi, di ricreare mondi fittizi o inesistenti. In questo senso, la sua arte è più emotiva che intellettuale, gioca sulle sensazioni (la bambina con il cappotto rosso) per colpire lo spettatore e, al tempo stesso, narrare una storia. Spielbeg è, del resto, il regista che nello stesso anno, il 1993, è riuscito a realizzare due film come “Jurassic Park” e “Schindler’s List”. Se i due temi sono inconciliabili, il processo – sostiene Klein – è lo stesso: quello di ricreare una realtà, e di farlo nel modo più realistico possibile.
È proprio da qui che si dipana la fantasia e, in certi casi, la retorica. “Salvate il soldato Ryan” nella prima mezz’ora racconta la guerra – scrivevano i critici – «per come è». Poi diventa uno spettacolo cruento che guida lo spettatore su un altro piano, più mitologico e celebrativo.
Spielberg racconta storie e crea mondi, ma soprattutto ricrea quello che gli è più familiare e vicino: l’America stessa. Se Tarantino trasporta lo spettatore in un universo parallelo, Spielberg lo vuole circondare con quello che c’è già, con il tessuto dei suoi valori, anche quelli più problematici, e dei suoi miti. L’idea che tutti possono essere eroi, anche i bambini in bicicletta, e quella che il bene alla fine vincerà.