Le crescenti preoccupazioni alimentate dalla risalita dei contagi e dalla diffusione delle nuove varianti, con tutte le incognite oggi legate alla Omicron e domani a chissà quale altra lettera dell’alfabeto greco, ci dicono che l’emergenza non è finita. L’esperienza di questi due anni, inoltre, dovrebbe averci insegnato quanto sia pericoloso illudersi del contrario. Pericoloso per via delle conseguenze di salute pubblica, ma anche per le conseguenze politiche. Chiedere per conferma a Matteo Salvini, che in questi mesi ha tentato almeno tre o quattro volte di cavalcare le proteste contro le restrizioni e altrettante volte ha dovuto fare marcia indietro. In tali occasioni, giova ricordare, il leader della Lega è finito isolato nel suo stesso partito, dove amministratori locali e chiunque avesse a che fare con le persone là fuori, e non solo con gli algoritmi dei social network, gli ha fatto capire chiaramente come in quella direzione avrebbero finito per farsi linciare dai loro stessi elettori.
Se ricordo queste ovvietà è perché molti, nel dibattito sull’elezione del presidente della Repubblica e sul ruolo di Mario Draghi, sembrano averle improvvisamente dimenticate. In diversi ambienti si sente infatti ripetere che per lui sarebbe venuto proprio il momento di traslocare al Quirinale, e che sarebbe tanto più conveniente farlo adesso, potendo esibire un bilancio da record sia per quanto riguarda i numeri della campagna di vaccinazione sia per quanto riguarda il Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Il ragionamento mi pare abbia due evidenti difetti: il primo è accreditare l’idea che Draghi possa considerare la salvezza dell’Italia questione marginale rispetto ai propri interessi o preferenze personali; il secondo è accreditare l’idea, altrettanto infondata, che qualora un minuto dopo l’uscita di Draghi da Palazzo Chigi le cose cominciassero ad andare storte, sulla pandemia e a maggior ragione sul Pnrr, il conto non sarebbe addebitato comunque a lui.
A me pare che le cose stiano esattamente al contrario. Per quanto riguarda l’evoluzione dei contagi, vedremo cosa diranno i dati dei prossimi giorni. Ma certo, al di là degli aspetti tecnico-giuridici riguardanti la questione formale dello stato di emergenza e della sua eventuale proroga, sul piano della comunicazione pubblica non sembra proprio il momento di annunciare la fine dell’emergenza. Senza contare il rischio di offrire agli avversari di domani il pretesto per accusare il presidente del Consiglio di aver voluto presentare la situazione migliore di quello che era, esponendo dunque gli italiani a rischi ulteriori, per poter dichiarare «missione compiuta» e trasferirsi al Quirinale con tutti gli onori.
Per quanto riguarda poi il Pnrr, è evidente che l’uscita di Draghi da Palazzo Chigi certo non renderebbe le cose più semplici, non foss’altro perché coinciderebbe quasi certamente con elezioni anticipate, con una nuova campagna elettorale caratterizzata da una sorta di bipopulismo perfetto, e molto probabilmente con la vittoria dello schieramento più populista di tutti.
Quanto ai problemi di attuazione già denunciati da tanti e oggetto di numerose analisi e commenti allarmati, evidentemente, non fanno che rafforzare gli argomenti di chi vuole Draghi esattamente lì dove sta. Anche perché, nel caso in cui si rendesse necessario ridiscutere i termini degli accordi europei, è l’unico italiano al mondo in grado di farlo senza suscitare immediate e furiose reazioni di rigetto da parte dei sostenitori dell’austerità e delle vecchie regole (peraltro formalmente mai cancellate) del Patto di stabilità.
Se la situazione lo richiedesse, Draghi potrebbe argomentare ad esempio che i tempi entro i quali spendere le risorse dovrebbero essere commisurati alla loro entità. Chi ha ricevuto in prestito il doppio o il triplo dei fondi rispetto ad altri paesi, tra l’altro non perché particolarmente simpatico, né per la sopraffina arte oratoria dell’allora capo del governo, ma perché ridotto peggio, è ragionevole abbia bisogno di più tempo per spenderli. Ma anche un argomento semplice e razionale come questo, un conto è se te lo spiega Draghi, un conto è se te lo spiega Salvini, non vi pare?
Sostenere poi che il problema sarebbe risolto dal cosiddetto «semipresidenzialismo di fatto», vale a dire dalle garanzie che Draghi offrirebbe comunque dal Quirinale, significherebbe semplicemente dire il falso. Perché, con tutta la buona volontà di Draghi, poteri, competenze e prerogative in materia di gestione del Pnrr, banalmente, non fanno capo al presidente della Repubblica; perché l’indirizzo politico spetta al governo, sostenuto dalla maggioranza parlamentare che gli dà la fiducia in parlamento, cosa di cui nemmeno Draghi, grazie al cielo, può fare a meno; perché l’idea che un presidente della Repubblica, per quanto autorevole, possa rendere praticamente ininfluente il risultato delle elezioni è infondata, ingiustificata e inaccettabile anche solo come battuta. E con le decisioni che dovranno essere prese in Europa nei prossimi mesi, su Next Generation Eu, Patto di stabilità e unione fiscale, per noi italiani c’è davvero pochissimo da scherzare.