È giusto fare la tara all’ottimismo con cui il nuovo cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha dichiarato allo Spiegel che il successo dell’Spd può ispirare altri partiti socialdemocratici, in Europa e anche oltre. Certo però è degno di nota che ieri el País titolasse in prima “La resurrezione della socialdemocrazia europea” un lungo reportage dedicato in particolare a Germania, Francia e Italia (argomento che occupava le prime tre pagine del giornale, più un editoriale nella sezione dei commenti).
Scommetto che i miei attenti lettori, giunti a questo punto, hanno già avuto un sussulto, cogliendo immediatamente il dettaglio apparentemente fuori posto, abituati come sono a leggere analisi e dichiarazioni a non finire sulle lezioni che la sinistra, il centrosinistra e il Partito democratico dovrebbero trarre dal successo dell’Spd. Vale a dire: che c’entra la Francia?
In Italia, infatti, buona parte dei sostenitori della socialdemocrazia – con tutti gli equivoci che il concetto porta con sé per le peculiarità della nostra storia nazionale, prima e dopo la caduta del muro di Berlino – considera infatti Emmanuel Macron come il principale nemico. Una posizione, va detto, parzialmente giustificata dal modo in cui Matteo Renzi ha sempre utilizzato il modello francese in polemica con la sinistra interna, e tanto più al momento di fondare Italia viva, quando dichiarò di voler fare al Pd quello che Macron aveva fatto al Ps.
Ecco perché per noi è particolarmente interessante e direi persino educativo leggere l’editoriale di un grande giornale progressista, geograficamente e anche idealmente lontanissimo da queste beghe, in cui si spiega che l’ultimo ciclo elettorale ha dato un «brío nuevo» alla socialdemocrazia dopo la nefasta gestione della crisi finanziaria del 2008, che la vittoria di Scholz ha ratificato il cambiamento dei pronostici e che al momento tutti gli scenari sembrano favorire Macron, «un liberale proveniente anche lui dalle file socialiste», il cui «progetto politico per l’Europa su salario minimo europeo, carbon tax e sviluppo di un braccio fiscale dell’Unione è molto più vicino a una sensibilità socialdemocratica che a quella della sua stessa famiglia politica».
A queste sensate considerazioni su Macron si potrebbero aggiungere, specularmente, le non meno sensate osservazioni su Scholz e sul programma di governo della coalizione semaforo espresse da Sergio Fabbrini sul Sole 24 ore di ieri, all’insegna di una salutare cautela.
Agli importanti impegni sugli investimenti e al grandioso piano di modernizzazione industriale per raggiungere la neutralità ambientale e l’indipendenza digitale avanzati dal nuovo cancelliere, infatti, si accompagna la conferma dell’impegno al pareggio di bilancio. Alle proposte di maggiore integrazione europea si accompagna la conferma del Patto di stabilità, che si sarebbe dimostrato «sufficientemente flessibile». Per non parlare della Bce, che dovrebbe preoccuparsi esclusivamente dell’inflazione; per non parlare della politica fiscale, che dovrebbe restare nazionale; per non parlare del Next Generation Eu, che di conseguenza sarebbe da accantonare non appena superata l’emergenza. Non c’è bisogno di essere un economista, e nemmeno un convinto socialdemocratico, per capire cosa significherebbe per l’Italia, e anzitutto per la sostenibilità della sua spesa sociale, anche solo il ritorno alle regole del Patto di stabilità pre-pandemia. Altro che neoliberismo.
Data l’evidente contraddizione tra i grandiosi obiettivi di sviluppo economico e integrazione istituzionale da un lato, e la conferma di tutte le regole che finora avevano impedito di raggiungerli dall’altro, scrive Fabbrini, il cancelliere Scholz per avere successo «avrà bisogno della pressione riformatrice dei governi francese e italiano». Il riferimento è in particolare alle proposte di riforma del patto di stabilità, cui sta lavorando anche Mario Draghi, e di unione fiscale, avanzate da Macron.
Se dunque è vero, come scrive el País, che la pandemia ha rilanciato il ruolo del Welfare, la centralità dello Stato e la funzione dell’intervento pubblico, riaccendendo le speranze dei socialdemocratici, è anche vero che la partita è tutt’altro che chiusa. Anche perché, accanto alla spinta in direzione di una gestione solidale ed espansiva delle risorse pubbliche, che ha aperto la strada al grande piano infrastrutturale di Joe Biden negli Stati Uniti e al Recovery Fund in Europa, persistono spinte di segno diverso. A cominciare dalla Francia, dove la destra populista, non bastasse Marine Le Pen, ha trovato un nuovo campione in Éric Zemmour. E non è affatto detto che la moltiplicazione/divisione degli avversari, unita alla ghigliottina del ballottaggio, finisca sempre per favorire Macron. Figuriamoci in Italia, dove non contenti di essere già minoranza in Parlamento e nel Paese, i riformisti passano il tempo a combattersi tra di loro.
La conclusione del País dovrebbe suonare pertanto, anche a orecchie italiane, quanto mai appropriata: «La domanda cui i socialdemocratici devono rispondere nell’immediato futuro è se sapranno rafforzarsi quando dovranno affrontare il problema migratorio, le conseguenze destabilizzanti della lotta al cambiamento climatico e la diseguaglianza come acceleratori di un’altra patologia globale: la pandemia dei populismi». Una patologia dinanzi alla quale gli aspiranti socialdemocratici italiani rischiano di trovarsi, come si vede, particolarmente impreparati, e con il nemico in casa.