Nel corso della stessa giornata, giovedì, Enrico Letta ha pronunciato due diverse dichiarazioni sulla legge elettorale (mi rendo conto che come incipit non è dei più accattivanti, ma abbiate fiducia, perché penso che invece il caso sia piuttosto significativo e abbia un’importanza che va molto al di là dei tecnicismi).
Nella prima dichiarazione, pronunciata in un’intervista alla tv del Corriere della sera e pubblicata sul giornale di ieri, il segretario del Pd ha ribadito la posizione ufficiale del partito, secondo cui di legge elettorale si può discutere solo dopo l’elezione del presidente della Repubblica: «Aprire una discussione sulla legge elettorale il giorno dopo il voto sul presidente con larga maggioranza è possibile. Dopo l’elezione sì, prima non ci sono le condizioni».
Nella seconda dichiarazione, pronunciata nel corso di un dibattito con Giorgia Meloni alla festa di Fratelli d’Italia, in risposta a una domanda di Bruno Vespa su coloro che vorrebbero il ritorno al proporzionale, ha detto: «Quando dici volete, non riguarda me la cosa». Quindi, dinanzi alle manifestazioni di stupore dell’intervistatore – che tuttavia non mancava di ripetere la tesi secondo cui «il Pd è figlio del maggioritario, è figlio di Prodi, è figlio di Veltroni» – ribadiva, testualmente: «Io personalmente sono sempre stato assolutamente, da sempre, su questa linea, l’ho sempre portata avanti, quindi non ho motivi per cambiare idea». Concludeva Vespa radioso: «Questa mi pare un’ottima risposta, per quanto mi riguarda».
Per quanto riguarda gli italiani, mi pare più discutibile, ma non voglio saltare subito alle conclusioni. L’evidente contraddizione tra la prima e la seconda dichiarazione di Letta consente infatti di mettere in luce diverse questioni, che elencherò, contrariamente a ogni principio giornalistico, in ordine d’importanza crescente (questa storia di mettere la notizia in cima l’ho sempre trovata noiosissima).
La prima questione riguarda i rapporti nel Pd, il suo modo di funzionare, quel che è rimasto della sua democrazia interna, insomma il modo in cui lì dentro si prendono le decisioni. Ricapitolando: al momento di farsi eleggere segretario, davanti all’assemblea nazionale, Letta fa un lungo discorso in cui sulla legge elettorale non dice praticamente niente. Salvo però la sera stessa, in diretta televisiva, ospite di Fabio Fazio, rilanciare il maggioritario. Dopodiché, dinanzi alle pressioni di buona parte dei dirigenti, convinti che occorra invece una legge proporzionale, e in particolare dopo una riunione della direzione in cui questa sembra essere la posizione della maggioranza, comincia a dire che è un tema di cui si può certamente discutere, ma dopo. Dando quindi a intendere di essere intenzionato o perlomeno disponibile a correggere la rotta, solo di non volerlo fare subito, in modo eclatante e tra le polemiche. Scherzetto.
La seconda questione è insieme di metodo e di principio. Ed è che il Partito democratico, al momento di accodarsi al taglio populista dei parlamentari, nell’ennesimo voltafaccia compiuto per accodarsi ai Cinquestelle, l’unica cosa che aveva chiesto era stata proprio un cambiamento della legge elettorale in senso proporzionale, con l’argomento che altrimenti si mettevano a rischio l’equilibrio dei poteri e la democrazia. Loro lo hanno detto. E adesso, fatto il taglio dei parlamentari, siccome qualcuno si è illuso, come al solito, che stavolta il meccanismo bipolare-bipopulista potrebbe avvantaggiare il Pd, eccoli pronti a ripetere lo stesso errore del 2008, e chissene frega dei contrappesi al taglio dei parlamentari, dell’equilibrio dei poteri e dei rischi per la democrazia.
Inutile dire che è esattamente questo modo di rigirarsi sempre la frittata a minare la credibilità di qualunque tentativo di costruire davvero un argine alle minacce – reali – alla divisione dei poteri e alla democrazia. C’è davvero qualcosa di insopportabile in questa disinvoltura sulle questioni di principio, tanto enfaticamente agitate fino a un minuto prima contro gli avversari quanto ignorate un minuto dopo, quando non sia più conveniente tatticamente (si tratti del fascismo, dei rischi di una dittatura della maggioranza o del populismo).
La terza e più importante questione, collegata alle precedenti, riguarda infine l’Italia, cioè tutti noi. Ed è che i rischi di un colpo alla democrazia e alla divisione dei poteri – qualunque cosa ne abbia detto ieri e ne dica domani il Pd – non mancano di sicuro, con un bipopulismo perfetto, leggi elettorali più o meno maggioritarie, un sistema di pesi e contrappesi alterato in modo imprevedibile dal taglio a casaccio dei seggi e leader politici che dichiarano pubblicamente di ispirarsi a Viktor Orbán (aperto teorico ed effettivo realizzatore, in Ungheria, di un nuovo tipo di autoritarismo, gentilmente ribattezzato «democrazia illiberale»).
Resta, dunque, soltanto una domanda: ma se questi sono i democratici, a che ci servono i fascisti?