Per la seconda volta consecutiva anche quest’anno il 25 dicembre sarà segnato dalle varie restrizioni imposte dai perduranti effetti pandemici. A risentirne anche le celebrazioni e i riti preparatori della novena di Natale, tradizionalmente caratterizzati, soprattutto nel Sud Italia, dal suono itinerante degli zampognari e dal canto di tradizionali pastorali settecentesche come le alfonsiane Tu scendi dalle stelle, Fermarono i cieli e, soprattutto in area napoletanofona, Quanno nascette ninno.
Di tali riti si registrano in questi nove giorni del 2021 manifestazioni più contenute, quando non soppresse, nella modalità partecipativa di coralità. Ma ne resta alterato in non poche persone il fascino spirituale e simbolico a quelli sotteso.
Cosa che a maggior ragione può dirsi, in ambito liturgico cattolico di rito romano e ambrosiano, per le Antifone maggiori di Avvento, cantate prima del Magnificat vespertino dal 17 al 23 dicembre e dette anche “Antifone O” in ragione dell’incipit vocativo: O Sapientia, O Adonai, O Radix Iesse, O Clavis David, O Oriens, O Rex gentium, O Emmanuel. Risalenti al VII secolo e ispirate a pericope veterotestamentarie annuncianti l’avvento del Messia, formano, se lette dalla settima alla prima, l’acrostico latino ERO CRAS, vale a dire [Ci] sarò domani, in riferimento al Cristo che viene.
Solo in un secondo tempo si aggiunsero due altre antifone, O Virgo Virginum e O Gabriel, sì da portare a nove le dette antifone, una per ogni giorno della novena. Uso che però non conobbe la stessa fortuna rispetto alle sette originali.
È da notare che nel XVI secolo l’antifona O Virgo Virginum (O Vergine delle vergini) fu adottata in Spagna per i secondi vespri del 18 dicembre, giorno in cui si celebrava (e si celebra), a partire dalla metà del VII secolo, una tipica festa in onore di Maria. Festa che, precedentemente mobile, fu fissata a quella data dal X Concilio di Toledo (656) sì da conferire stabilità alla celebrazione e ovviare all’annuale diversificazione di date nel commemorare la madre di Gesù. Commemorazione che, secondo l’uso orientale, cadeva in una domenica antecedente il Natale (solitamente l’ultima) e che, come tale, risulta attestata, tra V e VII secolo, a Ravenna, Milano, Aquileia, Napoli e, appunto, in molte parti della Spagna («in multis Hispaniae partibus»).
La festa mariana spagnola del 18 dicembre, che alla fine del VIII secolo è singolarmente documentata nella sola città campana di Benevento, è dunque la germinazione della ben più antica domenica mariana prenatalizia, incentrata sul brano lucano dell’Annunciazione (1, 26-35). La stessa che, ricorsa ieri, è caratterizzata ancora ai nostri giorni dalla lettura dei medesimi versetti del vangelo di Luca. Nel complesso si può concludere che è rimasta in realtà inalterata nei secoli la primeva usanza di celebrare il ruolo di Maria nell’incarnazione del Cristo a pochi giorni dal Natale.
D’altra parte, una medesima festività, intimamente legata al ciclo natalizio e avente per oggetto la maternità verginale, era celebrata anche a Roma il 1° gennaio già nella seconda metà del VI secolo, quando appare invece attestata, al 18 di quel mese, anche in Gallia.
Si accennava prima a Benevento. A seguito della caduta del re d’Italia Desiderio e della presa di Pavia capitale nel 774 – vicende che con altre fanno da cornice all’epopea tragica dell’Adelchi manzoniano –, la città meridionale era divenuta il centro del potere politico, economico, culturale dei Longobardi. Ad attuare l’operazione era stato il duca Arechi II, che, genero proprio di Desiderio, non aveva tardato ad assumere ruolo e insegne di principe (774-787).
È singolare notare che a Benevento la festività mariana era celebrata il 18 dicembre «da tempi antichi» in una con quella della dedicazione della locale cattedrale. A testimoniarlo inequivocabilmente lo splendido sermone In festivitate sanctae Mariae reginae coeli del vescovo locale Davide, che, ascrivibile al 795, fu edito da chi scrive nel 2003 secondo la lezione di due soli testimoni manoscritti.
Nel testo omiletico il presule tende soprattutto a rimarcare la centralità della festa del 18 dicembre come segno della locale autonomia ecclesiale rispetto alla Chiesa di Roma. Autonomia che conobbe la massima affermazione proprio durante il principato arechiano e di cui Davide dà prova nel rilevare con orgoglio che la «festivitas huius diei […] intra sanctam romanam non colatur ecclesiam».
Da un punto di vista contenutistico il sermone s’impernia intorno al tema della regalità di Maria alla luce, però, della sua maternità verginale. Dall’inizio alla chiusa invocativa il leitmotiv del sermone è il tradizionale binomio Maria-Madre, che proprio il ciclo natalizio mette particolarmente in luce. La singolare unicità e trascendenza della maternità verginale è ampiamente sottolineata col ricorso a metafore veterotestamentarie, filtrate dalla riflessione dei Padri. Il parto verginale, segno della divinità di Cristo, è espresso col paragone della “porta chiusa” di Ez. 44, 1-2: «Quam et matrem et virginem per clausam Ezechiel designans portam, per quam nullus vir, idest maritalis coniuntio, nisi ipse Dominus nascendo transiret, olim predixit».
A parte il riferimento ai testi eucologici dell’ufficio della festività ispanica di Maria, l’interpretazione della pericope ezechieliana, in riferimento all’integrità corporale di Maria nel parto, può definirsi classica. Si pensi soltanto a Cirillo d’Alessandria, Proclo di Costantinopoli ed Esichio di Gerusalemme. Davide, tuttavia, preferisce astenersi dall’investigare e spiegare «eius partum nec regis nati mysterium, quod magnum est et admirabile sacramentum». E così s’allinea con quei Padri, come Ignazio d’Antiochia e Agostino, che preferiscono tacere dinanzi a questo “mirabile sacramento”.
Sulla scorta d’analoghi passi di Pier Crisologo e Proclo la trascendente dignità della maternità verginale è poeticamente lumeggiata mediante raffronti di superiorità con gli angeli e con gli elementi cosmici: i cieli, la terra, gli astri, il mare. Limitandosi al momento della concezione e del parto, Davide riconosce nella partecipazione unica e propria di Maria al mistero dell’incarnazione un vero apporto causale all’opera della redenzione: «Tu reconciliatrix angelorum et hominum; tu domini nostri Ihesu Christi genitrix virgo, per quam via veritas et vita et agnus sine macula ruenti mundo illuxit. […] Si ergo te pariente crimen femineum periit».
La missione materna di Maria nel suo aspetto salvifico non s’è tuttavia esaurita nell’arco della sua esistenza terrena. Il genere umano, di cui è amante, esperimenta costantemente ch’ella è misericordissima, piissima, exaudibilis e che, soprattutto, nutre affetto materno per i suoi figli.
Il termine piissima, inserito tra clementissima ed exaudibilis, non è suscettibile d’ulteriore interpretazione. Ancora una volta è possibile vedere un nesso con un’orazione dell’ufficio della festa ispanica di S. Maria, che, unitamente a un’altra, può considerarsi la prima chiara attestazione dell’esercizio di sentimenti materni di Maria nei riguardi degli uomini.
Strettamente connesso a una tale consapevolezza è il palese riconoscimento del “dominio” universale di Maria: il riconoscersi di Davide al servizio della Regina del cielo, «licet illi indigne servio», non lo trattiene tuttavia dall’asserire con fiducia filiale: «eius me spero patrocinio salvari». Parole, queste, e significati a esse sottese che aiuteranno forse a meglio comprendere la forte connotazione mariana della liturgia di due giorni fa ma anche di quelli successivi.