Oggi finisce l’anno in cui doveva finire e non è finita la pandemia, ma anche l’anno in cui abbiamo cominciato a rialzarci, dalla crisi sanitaria e dalla crisi economica. Un anno senza dirette Facebook da Palazzo Chigi e senza conferenze stampa del commissario Domenico Arcuri, senza task force a catena e senza stati generali a villa Pamphilj, ma con il generale Figliuolo, campagne di vaccinazione efficaci, il green pass e un Piano di ripresa e resilienza approvato e in marcia secondo i tempi.
Finisce un anno cominciato con l’uscita di Giuseppe Conte e l’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi: il primo anno senza populisti alla guida del governo, che ha coinciso non solo con risultati insperati tanto nella lotta al Covid quanto nella ripartenza dell’economia, ma con una serie incredibile di vittorie italiane in ogni sorta di competizione internazionale, dallo sport alla musica (unica coincidenza casuale).
Un anno che finisce tuttavia con più di qualche ombra, e soprattutto più di qualche somiglianza con l’anno precedente. Per il ritardo, la confusione e il bizantinismo con cui si è affrontato l’arrivo della variante Omicron. Per le troppe concessioni ai nostalgici delle precedenti stagioni, alla base sia dei ritardi nel contrasto alla nuova variante sia di una finanziaria carica di misure fiscalmente regressive, come il superbonus al 110%, esteso persino alle villette, a prescindere dal reddito. Per non parlare delle scelte (o delle non-scelte) su concessioni balneari, pensioni e navigator.
Molte di quelle decisioni Draghi ha provato a correggerle, senza riuscirci. Ci ha provato, ad esempio, proprio sul superbonus, provvedimento ereditato dal governo Conte e bandiera del Movimento 5 stelle, che il presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, Giuseppe Pisauro, ha definito su lavoce.info «distorsivo e poco sostenibile», ma soprattutto regressivo: «Già le vecchie detrazioni avvantaggiavano in misura sproporzionata i più ricchi: oltre la metà delle detrazioni per ristrutturazioni e risparmio energetico andava al 15 per cento più ricco dei contribuenti (il top 1 per cento otteneva il 10 per cento delle risorse). È probabile che con il superbonus la situazione peggiori».
L’elenco delle misure a favore dei ceti più abbienti potrebbe continuare a lungo, ad esempio con il bonus facciate e le altre scelte più volte meritoriamente segnalate, sul Foglio, da Luciano Capone, che già ai tempi del secondo governo Conte aveva parlato in proposito di «patrimoniale inversa». Quello che conta, tuttavia, è che siamo davanti all’essenza del populismo, che avvolge in una propaganda sinistrista una politica economica regressiva. Cioè quanto con il 2021 speravamo di esserci lasciati alle spalle. Proprio sul finire dell’anno, invece, dobbiamo riconoscere che la spinta riformista del governo Draghi si è significativamente indebolita, stretto com’è nella morsa bipopulista (lo si è visto anche nell’ultimo Consiglio dei ministri, con le convergenti pressioni leghiste e grilline).
Personalmente, come ho già scritto qui, temo che la ragione di tale indebolimento sia il modo in cui Draghi, volente o nolente, ha finito per esporsi nella corsa al Quirinale, in un momento in cui dare un messaggio di disimpegno dall’esecutivo non poteva che danneggiarlo. Per non parlare delle diffuse preoccupazioni per gli effetti che la sua eventuale uscita da Palazzo Chigi potrebbe avere sul Pnrr e più in generale sui mercati (mercoledì Bloomberg ha scritto che la sua ascesa alla presidenza della Repubblica potrebbe rallentare la ripresa e rappresentare un grosso rischio per l’economia italiana).
Comunque si concluda questa partita, speriamo che il 2022 veda l’Italia riprendere con decisione il cammino iniziato nella prima parte dell’anno, lasciandosi presto alle spalle le ombre di queste ultime settimane, troppo simili alle ultime settimane del 2020, da troppi punti di vista.
Il primo anno senza populisti a Palazzo Chigi dall’inizio della legislatura si chiude comunque con un bilancio più che positivo. Auguriamoci che non sia anche l’ultimo.