Puntuale e implacabile come sempre, la nuova ondata del covid ha portato con sé, come tutte le precedenti, le polemiche sui mezzi pubblici, sulle scuole, sul lavoro da casa e su tutto quello di cui si ricomincia a discutere sempre da zero, perché nessuno ha più la forza, e tantomeno la voglia, di scontentare nemmeno la più piccola minoranza, si tratti del partito del tramezzino schierato contro lo smart working o del partito degli spensierati ostile a qualunque scelta razionale implichi la presa di coscienza della situazione in cui siamo.
E così, ogni volta, ricominciamo da capo. Ed ecco dunque, puntuale e implacabile come tutti gli altri, anche il dibattito su come evitare che la risalita dei contagi metta a rischio il funzionamento del Parlamento e ne alteri gli equilibri, in vista dell’elezione del presidente della Repubblica, che vedrà fisicamente presenti, sia pure ragionevolmente scaglionati, oltre mille grandi elettori. Un evento non proprio imprevedibile, essendo la data del voto, giorno più giorno meno, nota a tutti da circa sette anni.
Ancora una volta, non si capisce per quale ragione i parlamentari non possano votare da remoto, attraverso il computer. Probabilmente la ragione è un misto di isteria populista (la versione anti-parlamentare del partito sado-liberista contrario allo smart working per principio) e di soggezione alle prevedibili inerzie di tutte le burocrazie e di tutti gli apparati (per far votare i parlamentari da remoto, evidentemente, un certo numero di tecnici, funzionari, commessi, dovrebbe essere incomodato).
Fatto sta che ancora una volta tocca assistere a discussioni palesemente assurde su come ridurre un rischio che si potrebbe facilmente evitare del tutto, attraverso lo smart voting. In questo caso, però, con diverse ulteriori aggravanti, che alzano a livelli senza precedenti il coefficiente di assurdità del dibattito.
Per esempio, il fatto che per l’elezione del presidente della Repubblica sono fissati dalla Costituzione alcuni quorum, per ovvie ragioni assolutamente intoccabili, e dunque la prevedibile assenza di una certa quota di grandi elettori, perché in quarantena, può rendere ancora più difficile raggiungerli, prolungando ulteriormente la procedura. Procedura che già di per sé, come noto, può andare avanti per settimane, e figurarsi con gli scaglionamenti dei votanti e le esigenze di sanificazione continua, per cui è difficile immaginare si possa svolgere più di una votazione al giorno. A questo ritmo, cominciando a votare nell’ultima decade di gennaio, non si può nemmeno escludere che si arrivi oltre il 3 febbraio, cioè alla scadenza del mandato di Mattarella. E così si raggiungerebbe davvero il culmine dell’assurdo: in piena emergenza, si aprirebbe infatti anche il dibattito tra costituzionalisti attorno alla questione se a quel punto Mattarella dovrebbe comunque rimanere al suo posto o se le sue funzioni dovrebbero invece essere assunte dalla presidente del Senato, con tutto quello che questo comporta, quale che sia la decisione, per la legittimazione e la funzionalità delle istituzioni, nel pieno della pandemia (cioè in un momento in cui la legittimità di ogni decisione politica è comunque contestata in radice).
Sostenere che per risolvere il problema è necessario che i partiti si mettano d’accordo per tempo ed eleggano il presidente nelle prime votazioni, come ha fatto ad esempio il costituzionalista Gaetano Azzariti, è considerazione che si può anche condividere, ma non fa fare un solo passo avanti per la soluzione del problema. È evidente che qualora si trovasse un largo accordo e si riuscisse a farlo rispettare, nonostante i prevedibili franchi tiratori, nonostante le prevedibili assenze per quarantena e nonostante le note diversità di posizioni tra i partiti, avremmo un perfetto lieto fine. Ma ci sono tre «nonostante» di troppo per considerarlo una certezza.
E così, da un’ondata all’altra – non volendo affrontare il problema alla radice, con il voto da remoto – ci ritroviamo sempre da capo, anche su un tema così delicato come l’agibilità del parlamento.
Un’ultima precisazione a evitare inutili malintesi: dire che ricominciamo sempre da capo, anche con Mario Draghi a Palazzo Chigi, non significa dire che il presidente del Consiglio non abbia combinato nulla, o che non ci sia alcuna differenza con Giuseppe Conte (perdonate la ripetizione del concetto, per ragioni puramente retoriche).
Al contrario, il miracolo compiuto dal governo Draghi e dal generale Francesco Paolo Figliuolo (sempre sia lodato) sta proprio qui: non nel fatto che abbiano risolto tutti i problemi, che non hanno sempre risolto e in diversi casi nemmeno affrontato; ma nel fatto che, in questo quadro, sono riusciti ad affrontare efficacemente i due problemi più urgenti. E lo hanno fatto anzitutto imponendo per tempo green pass e super green pass contro sovranisti di destra, sindacalisti di sinistra, intellettuali di mezza tacca e irresponsabili di ogni risma, scelta che ha costituito la base per la ripartenza del paese, assieme a una campagna di vaccinazione coi fiocchi (e senza primule) e a una gestione ordinata del Piano nazionale di ripresa e resilienza (senza stati generali, task force a strascico e altre assurdità).