Comincio col farmi dei nemici, perché so che quello che sto per dire offenderà qualcuno e irriterà molti; ma secondo me va detto, perché è una cosa con la quale dobbiamo avere il coraggio di confrontarci con sincerità.
Voglio dire che, quando sento qualcuno che dice di non leggere perché non ha tempo, perché è difficile orientarsi tra i troppi libri che escono, e che comunque costano troppo, so per certo di avere davanti una persona che non sa leggere.
Non intendo dire che si tratta di un analfabeta, perché per fortuna l’analfabetismo primario è quasi del tutto sconfitto, in Italia. E nemmeno che si tratta di un analfabeta funzionale, e cioè persona che sa leggere e scrivere ma non è in grado di capire frasi complesse. Intendo dire che non è in grado di affrontare la lettura di un libro, di un testo lungo, di un’opera intera e complessa, anche di centinaia di pagine.
Questa certezza mi viene dall’esperienza, perché ho provato a mettere in mano a persone che si schermivano, dicendo che non avevano tempo per leggere, anche testi brevi, facili, che parlavano di cose che certamente li avrebbero interessati; ma mi sono accorto che non erano semplicemente riuscite a leggerli anche se il tema, o l’autore, le avevano incuriosite. Non è una colpa, e non bisogna disprezzare coloro che non hanno la fortuna di saper leggere. Ma è opportuno almeno riflettere su cosa perdono, nella speranza che prima o poi, in Italia, ci si renda conto di cosa manca a un paese di non lettori.
Chi non sa leggere si trova un po’ nella condizione di chi non sa nuotare. Non ha la possibilità di fare un’esperienza unica, che non assomiglia a nessun’altra. Nessuna di queste due capacità nasce spontaneamente. Ma mentre imparare a nuotare è relativamente facile, ed è una capacità che non si perde nel tempo, leggere, decifrare quegli astrusi segni neri sulla carta, è un lavoro, un mestiere, una competenza che si acquista solo con l’esercizio, e che si rischia di perdere se non la si coltiva. È un’abitudine, una sorta di muscolo intellettuale che, se esercitato, funziona con più vigore, e dà più forza nel confrontarsi con la pagina scritta.
Saper leggere vuol dire anche saper capire con facilità il contenuto e la forma di quello che contiene un libro; vuol dire saper scorrere tra le pagine per andare a cercare quello che interessa di più; vuol dire saper capire rapidamente se un testo ci attrae davvero o se non val la pena perderci tempo sopra; vuol dire essere in grado di approfittare degli interstizi del nostro tempo, una coda alla posta, un tragitto in tram, l’attesa nella sala d’aspetto del dentista. Saper leggere vuol dire essere capaci di farlo anche in ambienti rumorosi. Chi sa leggere legge anche di fronte alle più drammatiche ansie, di fronte alle angosce più profonde, di fronte ai dolori più esacerbanti. Perché per chi sa leggere i libri sono la migliore consolazione che si possa chiedere. Leggere è la cosa più astratta che l’uomo abbia imparato a fare. E non leggere vuol dire rinunciare a esercitare l’attività più raffinata, più alta, più caratteristica del suo essere che il genere umano abbia mai escogitato.
Non amo parlare di esperienze personali, ma qui lo sento come un dovere. Mi è successo di assistere una persona cara in coma. In quelle occasioni ti dicono che parlare serve, perché il paziente sente, anche se non c’è una coscienza visibile. Non ho prova che questo sia vero, ma è leggendole i libri più amati che ho avuto la sensazione di avere maggiori possibilità di intercettare un barlume di attenzione; e in quella situazione non ho provato niente altro che mi desse la stessa, lieve, sensazione di serenità. Insomma, la vita ci può riservare terribili sorprese. Ma i libri, se sappiamo leggerli, sono la più straordinaria risorsa per affrontarle.
Poiché nella vita quotidiana chi non legge libri se la cava benissimo, verrebbe fatto di pensare che l’incapacità di leggere abbia poco a che fare con la capacità di essere bravi cittadini, competenti lavoratori e buoni padri e madri di famiglia. E in effetti questa è l’apparenza, e pochi hanno la sensazione che, solo perché non leggono libri, gli sia sfuggito qualcosa, visto che guardano la televisione, ascoltano la radio e usano con disinvoltura i dispositivi digitali.
Io credo invece che a loro sia sfuggito molto, perché nei libri (che si leggano sulla carta o su un e-reader non cambia) c’è qualcosa che difficilmente si trova altrove. Nei libri ci sono la storia dell’uomo, dai miti primigeni al disagio della contemporaneità; il bene e il male, la vita e la morte, la felicità e la sofferenza; ci sono le conquiste e i fallimenti dell’intera umanità; c’è il racconto di come i nostri sentimenti, i nostri sogni, le nostre azioni, tutti i nostri gesti hanno prodotto le nostre vite, tanto diverse quanto simili nel loro destino. C’è un pensiero simbolico, che nasce da un’esperienza del tutto astratta; e si tratta dell’esperienza che più facilmente spinge ad avere fantasia, a sviluppare idee, a immaginare cose nuove, a pensare soluzioni originali. Che ci permette di separare la pienezza della vita dal vuoto di un sentire irrazionale; l’essere dal nulla.
Guardando le rovine dei grandi imperi del passato abbiamo una visione parziale, corrotta, smangiata di cosa è stato quel mondo. I libri, invece, se conservati con cura, come e più di ogni costruzione, opera d’arte e monumento, vivono per sempre. Sfidano la caducità del nostro essere e quindi sono l’unica cosa che ci fa sfiorare l’immortalità. Sono il nostro tentativo di costruire una sorta di sterminato archivio di quello che, una volta usciti dallo stato primordiale, negli ultimi tremila anni, abbiamo fatto, visto, sentito, sofferto e pensato. Il Colosseo è ancora lì, è vero, ma in parte crollato, senza pavimentazione, con pochi tratti delle immense scalinate che ne facevano il più grande teatro della romanità. Dell’Eneide abbiamo ogni singolo verso, non manca niente. Quello sì che è un monumentum aere perennius.
L’avere coscienza di sé, la scrittura, e quindi i libri, sono quello che, in definitiva, ci distingue dallo stato animale.
Per semplificare, potremmo dire che quello che si perde se non si legge è uno strumento essenziale per indagare sui temi centrali dell’esperienza umana. Nelle pagine che seguono ho aggregato per grandi temi, arbitrari, forse inopportuni, e lungi dall’essere esaustivi, alcune opere classiche, più o meno popolari.
Spero così di aver delineato un tentativo di spiegare in modo schematico, a me e a chi avrà la pazienza di proseguire la lettura, quali sono le prospettive che la letteratura può aprirci; e come questo rappresenti un’opportunità di riflessione su cosa siamo e come siamo fatti che solo i libri ci possono dare. Nessuna sistematicità, nessuna pretesa di aver fatto un elenco ragionato dei libri più importanti, o più belli. Solo una ricognizione, personale, per alcuni pochi, grandi temi tra quelli che mi sono parsi i più adatti a spiegare perché il lavoro del lettore è il più bello che esista.
da “Il lavoro del lettore. Perché leggere ti cambia la vita”, di Piero Dorfles, Bompiani, 2021, pagine 252, euro 16