Convivere col virus In difesa dei test fai-da-te e la fine dell’emergenza Covid

L’obiettivo dell’eradicazione del coronavirus è impossibile. Il cambio di strategia allora impone di raccomandare l’impiego di strumenti di auto-diagnosi. Ma soprattutto di fidarsi di più delle persone, riportando all’individuo la responsabilità della salute propria e dei suoi cari

di Mitchell Luo, da Unsplah

La caratteristica più evidente della variante Omicron è la sua trasmissibilità. Il virus ha trovato il modo di accelerare il suo ingresso e replicazione nell’ospite, così come di colpire soprattutto le vie aeree superiori: un combinato disposto per causare sintomi più lievi. Per questa ragione spesso chi ne è infettato non può neppure sospettare di essere portatore del coronavirus.

In teoria, dovrebbe essere comparsa la variante che tutti aspettavamo: praticamente innocua nelle persone sane e data l’elevata trasmissibilità in grado di soppiantare quelle che causano danni più seri, soprattutto ai polmoni o con devastanti sindromi citochiniche.

Stanno venendo a patti con l’idea che il virus è qui per restare, anche coloro che pensavano si potesse eradicare Sars-Cov-2 attraverso misure non farmacologiche (Covid Zero). Apparentemente, solo la Cina insiste nella sua strategia militarista di far guerra senza quartiere all’infezione. La questione, nel mondo occidentale, non è più provare a evitare alle persone di venire in contatto con il virus: ci finiremo tutti prima o poi, probabilmente. Il problema è quando, e quindi con quale variante e come. Più avanti sarà e più probabilmente si tratterà di Omicron, e non Delta o qualche ceppo precedente.

Nella maggior parte delle persone in salute Omicron causa un lieve raffreddore, mal di gola e poco altro. È presto per dire che ha avuto ragione chi aveva oltre un anno fa previsto che questo virus sarebbe andato a ingrossare le fila di quelli che causano i raffreddori, tra cui alcuni coronavirus. Il fatto è che al momento Omicron non è l’unica variante che circola, per cui si deve continuare a vaccinare. L’elevato tasso di vaccinati forse “aiuta” anche Omicron a imporsi: proprio perché i vaccini tendono a bloccare l’infezione da altre varianti più che da questa.

Che bisogna “convivere con il virus” dunque oggi è evidente e raramente negato anche da chi sino a ieri aveva la posizione opposta. Ma non si riflette a sufficienza su che cosa significa convivere con il virus. Da una parte, convivere con il virus significa senz’altro cercare di vivere quanto più possibile una vita e una socialità “normali”. Dall’altra, vuole anche dire imparare a fidarsi di più delle persone, riportando all’individuo la responsabilità della salute propria e dei suoi cari. La fine dello stato di emergenza, dal punto di vista politico se non giuridico, consiste proprio in questo.

Per diverse ragioni, ma soprattutto perché ci illudiamo di avere le cose sempre sotto controllo, facciamo fatica a rinunciare alla socialità e quindi anche a seguire rigidamente la prescrizione di misure non farmacologiche. Diversi esperti e commentatori hanno elogiato le popolazioni asiatiche più inclini all’obbedienza o alla rinuncia di libertà fondamentali, e che per questo avrebbero tenuto meglio sotto controllo la circolazione del virus. Dovremmo metterci po’ d’accordo con noi stessi e capire che se fino a due anni fa assegnavano un elevato valore alla libertà di movimento e all’autodeterminazione (il corpo è mio e me lo gestisco io) fondate sulle credenze personali, non possiamo aspettarci che basti un virus per fare diventare l’una cosa e l’altra due dis-valori, o che nella prassi le persone vi rinuncino tutte con slancio.

Nello stesso tempo, le medesime persone che hanno scoperto che bisogna convivere con il virus conducono spesso una battaglia appassionata contro i test antigenici, particolarmente quelli che possono essere autosomministrati, come per mesi hanno condotto una battaglia altrettanto accesa contro i test salivari. Le ragioni non si capiscono, perché sono comparsi diversi studi, uno anche sul New England Journal of Medicine, i quali dicono che non hanno una sensibilità così bassa come si credeva ma superiore all’80%, e che siccome la specificità equivale a quella della diagnosi molecolare, si tratta di strumenti validi per rilevare positivi asintomatici che non sarebbero mai emersi e che quindi terranno le distanze: insomma rimane utile un’azione di sanità pubblica condotta direttamente dai cittadini.

Come la produzione di vaccini in pochi mesi, così la comparsa di test rapidi anti-Covid in poche settimane è uno dei “miracoli” dell’ultimo anno. È normale che, con il passar del tempo, dal test diagnostico si arrivi, come si sta facendo, al logico passo successivo: agli strumenti di auto-diagnosi. Peraltro, tutti i test sono stati approvati dagli stessi regolatori: sono passati, dunque, attraverso il medesimo processo. La società libera è fatta di “algoritmi”, di processi quanto più possibile spersonalizzati, per prendere decisioni. La differenza fra i test antigenici somministrati in farmacia o in un centro diagnostico e quelli autosomministrati sta sostanzialmente nella mano di chi ci infila un cotton fioc su per il naso.

Nei giorni scorsi abbiamo assistito a code straordinarie, alimentate dall’insorgere dei sintomi dell’influenza di stagione unito alla raccomandazione, da parte di molti opinion maker pandemici, di farsi un test prima del pranzo di Natale con la mamma o del cenone di Capodanno con gli amici. Gli italiani hanno seguito l’esortazione e si sono recati in massa a farsi testare. È la cosa più logica e ragionevole, per persone che hanno magari una copertura vaccinale completa?

Torniamo per un attimo al mondo di ieri. Siamo sempre andati dal dottore al primo insorgere di un raffreddore, al primo dolore di stomaco, al primo sintomo di una congiuntivite? Di solito no. Anche i più ipocondriaci di solito la febbre se la misuravano in casa, con l’ausilio di un termometro. Quando fu inventata le termometria, negli ultimi decenni dell’Ottocento, solo i medici potevano misurare la temperatura. Sono molte le tecnologie autodiagnostiche, o test come quelli di gravidanza, inizialmente utilizzate solo dai medici, che ormai compriamo in farmacia. Gli strumenti di autodiagnosi andrebbero incentivati. Le persone che vi si sottopongono lo fanno nella propria casa e coi propri quattrini: non si capisce bene che autorità avrebbero gli opinion maker pandemici per dissuaderli. Facendolo, però, stabiliscono per così dire un primo presidio contro il virus: meglio farsi un antigenico in casa, prima di andare a fare la coda al drive in.

Si dirà: le informazioni relative all’antigenico in casa non sono di pubblico dominio, quindi non diventano uno strumento per decidere chi può circolare e chi no. Ma se una persona con sintomi può scoprire di avere il Covid o meno, siamo sicuri che sia poi così incosciente o spericolata da non autoisolarsi? Dopo due anni nei quali gli italiani tutti sono stati fuorché spericolati? E se qualcuno è invece spericolato non sarà certo la registrazione informatica della sua condizione a dissuaderlo.

Da ultimo, torna il solito argomento sulla scarsità, quello usato per la prima volta quasi due anni fa, da principio, per la mascherine chirurgiche. Forse si spiega così lo straordinario mutamento della pubblica opinione italiana, che passa in pochi giorni dal raccomandare il tampone prima del pranzo a sconsigliare caldamente di farselo da sé. Guai che si trovino dei test al supermercato, o su Amazon, e non nei centri diagnostici. Guai che magari finiscano nelle mani del “miglior offerente”. Ma la possibilità di praticare prezzi più alti di solito incentiva l’utilizzo di capacità produttiva e, anche, l’innovazione. Prezzi fissati per legge, invocati da molti. andranno a diminuire, non ad accrescere, l’offerta e renderanno più improbabile che qualcuno provi a sviluppare test nuovi, magari ancora più semplici e più accurati.

Non siamo ancora del tutto sicuri delle caratteristiche della variante Omicron, ma è sempre più evidente che essa si presenta con una sintomatologia più lieve delle precedenti. Ciò può essere dovuto sia alla mutazione del virus sia al fatto che incontra una popolazione diversa: in parte immunizzatasi naturalmente, in grossa parte immunizzatasi per vaccinazione.

Ci sono e ci saranno sempre soggetti che svilupperanno una malattia più grave: per la stessa ragione per cui alcuni sviluppano una polmonite e altri no, dopo essersi presi un’influenza “normale”. Non siamo tutti uguali e persone con caratteristiche diverse (non solo l’essersi vaccinati o meno: anche stile di vita, età, peso, patologie pregresse, eccetera) corrono un rischio diverso.

Bisognerebbe ripartire di qui per “convivere con il Covid”: riconoscere la diversità delle persone. Sotto il profilo genetico o della storia biologica individuali, ognuno si farà la Covid in modo diverso o avrà disagi diversi quando si vaccina. Ognuno di noi ha inclinazioni comportamentali diverse e cerca a modo suo di far uso delle informazioni che gli consentono di evitare il contagio o contagiare altri.

Durante la pandemia le persone sono state considerate come macchine molto semplici, a cui fosse possibile imprimere una direzione senza lasciare loro margini per adattare le indicazioni alle circostanze individuali, che anche queste tendono a essere diverse per contesti familiari, lavorativi, esperienze. I singoli conoscono meglio di qualunque sistema sanitario burocratizzato le proprie circostanze e, quindi, magari possono esercitare una libertà quasi ovunque oggi a essi preclusa decidendo di sottoporsi a un tampone da sé, prima di andare in farmacia o in ospedale, allungando le file.

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