La decapitazione repentina e simultanea dei vertici della Suprema Corte di Cassazione (il primo presidente Pietro Curzio e l’aggiunto Margherita Cassano, con funzione di presidente delle Sezioni Unite penali, la prima donna chiamata a ricoprire il prestigioso incarico) sancita dal Consiglio di Stato non è un incidente sia pur grave di mera amministrazione giudiziaria, ma un perfetto spaccato dei conflitti d’interesse che attraversano e affliggono lo Stato.
Alla vigilia di una delle più delicate e indecifrabili elezioni presidenziali della storia del paese, la sentenza di Palazzo Spada sancisce una nuova e potenzialmente devastante crisi di sistema: il primo presidente della Cassazione, insieme con il Procuratore Generale, è l’interfaccia al Consiglio superiore della magistratura tra il Capo dello Stato, presidente anche dell’ organo costituzionale di autogoverno delle toghe, e la magistratura stessa: un ruolo fondamentale specie negli ultimi due anni scanditi dagli effetti dell’affaire Palamara.
La Corte di Cassazione non è solo “il giudice di terzo grado”, quello che scrive la parola fine ai processi (o a volte li riapre, quando tutto sembra già deciso) ma amministra la “nomofilachia”, in parole povere detta ai magistrati italiani i criteri di interpretazione delle leggi, oltre ad altre funzioni non meno rilevanti come, ad esempio, la risoluzione dei conflitti di competenza tra gli uffici giudiziari delle Procure. Una funzione che in ragione del ruolo assunto dalle inchieste giudiziarie nella politica italiana è di enorme importanza.
Da sempre, la Cassazione è considerata un mondo a parte dalla stessa maggioranza dei magistrati che svolgono le loro funzioni ordinarie nei 26 distretti delle Corti di Appello italiane, con i propri rituali spesso anche indecifrabili per chi non ne abbia una approfondita conoscenza.
L’onda lunga dei recenti scandali ha avuto tra gli effetti anche quello di rendere più complicata e incerta al Consiglio Superiore di Magistratura la scelta dei vertici degli uffici giudiziari, con conseguente pesante intervento sulla scena di un nuovo interlocutore: il giudice amministrativo dei Tar e del Consiglio di Stato. Quest’ultimo, soprattutto, già ricopre da tempo un ruolo di grande influenza politica oltre che per i suoi scopi istituzionali anche per quello di fornitore di grand commis all’amministrazione statale. Presidenza del Consiglio e ministeri sono invasi dalle eminenze grigie del Consiglio, la vera essenza del “deep state” italiano. Non a caso, Draghi ha voluto come braccio destro, quale sottosegretario alla presidenza, Roberto Garofoli che proviene dai ranghi di Palazzo Spada.
La contiguità tra politica e l’alta magistratura amministrativa crea inevitabilmente una serie di rischi connessi a un conflitto di interessi strisciante e presente. E la vicenda che investe i vertici della Cassazione ha il merito di mostrarli.
In precedenza, il caso più eclatante aveva riguardato il posto di procuratore capo a Roma, in un primo tempo assegnato dal Csm a Michele Prestipino, già numero due del precedente capo dell’ufficio («che vale tre ministeri» secondo una diffusa vulgata politica) Giuseppe Pignatone.
La delibera di nomina, impugnata da altri due concorrenti, Marcello Viola, procuratore generale a Firenze, e Francesco Lo Voi, capo della procura di Palermo, è stata bocciata sia dal Tar del Lazio, che dal Consiglio di Stato e in ultimo grado, appunto, dalle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione presieduta dallo stesso Curzio che di lì a poco avrebbe dovuto affrontare la stessa trafila per la sua elezione a primo presidente.
Curzio e Cassano hanno già deciso opportunamente di non ricorrere in Cassazione contro la decisione di Palazzo Spada che li riguarda, evitando così un ulteriore corto circuito istituzionale.
La decisione del Consiglio di Stato, senza precedenti e obiettivamente devastante per la credibilità delle istituzioni, rischia di avere effetti paradossali quando mancano pochi giorni all’inaugurazione dell’anno giudiziario, l’ultimo della presidenza di Sergio Mattarella, che dovrebbe essere officiata dal primo presidente della Cassazione con un’ampia relazione sullo stato della giustizia.
È una diffusa previsione che il Consiglio Superiore della Magistratura, cui il Consiglio di Stato ha richiesto di riconsiderare i criteri di scelta degli alti incarichi, confermerà la nomina di Curzio e Cassano, entrambi in possesso di un curriculum di servizio prestigioso e unanimemente stimati per qualità professionale, che era stata impugnata da un altro magistrato di Cassazione, Angelo Spirito.
Si eviterà forse l’imbarazzo di una cerimonia con due sedie vuote, ma è difficile pensare che ciò servirà a rimarginare una grave ferita e a porre fine al disordine istituzionale che ha colpito la magistratura.
Le cause del malessere sono molto profonde: certamente la causa immediata è il grave discredito che ha colpito l’attuale Consiglio Superiore della Magistratura (non solo la vicenda Palamara, ma anche quella della circolazione nei suoi uffici dei verbali di Amara) e più d’uno rimpiange che il Presidente della Repubblica non ne abbia decretato lo scioglimento. Di fatto le delibere di nomina più importanti sono state annullate dal giudice amministrativo.
È importante capire il perché: nella sostanza, Palazzo Spada ritiene che la discrezionalità del Consiglio Superiore nella scelta dei dirigenti giudiziari sia ristretta e vincolata dai criteri predeterminati dalla legge sulla dirigenza giudiziaria promulgata dal governo Berlusconi nel 2006. Il punto è che, da allora, l’annullamento delle decisioni della V commissione del Csm (che si occupa delle nomine) è sempre stato un evento raro sino a questi ultimi tempi.
Una vecchia questione, quella dei criteri di scelta, tra merito ed anzianità, che ha un importante antefatto negli anni ’80 quando il Csm dell’epoca bocciò la candidatura di Giovanni Falcone alla guida dell’ufficio istruzione di Palermo in favore del candidato più anziano Meli, che smantellò il pool anti-mafia.
Qualcuno dei consiglieri di allora si giustificò dicendo che il superamento del criterio oggettivo dell’anzianità di servizio avrebbe favorito episodi di lottizzazione e clientelismo tra le toghe. Al di là del merito non si può dire che avesse tutti i torti.
Certamente i recenti scandali hanno favorito l’adozione di un criterio di scelta più conservativo rispetto alla valutazione di merito in cui l’appartenenza correntizia ha il suo peso. Eppure non può essere questa la soluzione, in un sistema dove la progressione di carriera dei singoli magistrati è pressoché automatica e svincolata dal merito (oltre il 90% di promozioni nelle sette valutazioni professionali cui i magistrati sono sottoposti nella carriera ogni quattro anni). Purtroppo l’invocata riforma del Consiglio Superiore della Magistratura e del suo sistema elettorale si è misteriosamente arenata nelle stanze del ministro di Giustizia Marta Cartabia, forse vittima dei tanti conflitti d’interesse che caratterizzano i ruoli dell’alta dirigenza dello Stato, magistratura compresa.
Il lavoro svolto dalla commissione presieduta dal professor Massimo Luciani (che è anche difensore nei vari ricorsi al Consiglio di Stato di Prestipino, Curzio e Cassano) non è riuscito a produrre soluzioni condivise sia sul metodo delle elezioni sia su un altro profilo scottante: quello delle “porte girevoli” tra politica e magistratura.
Non un problema da poco e persisterà anche in futuro: ad esempio, più d’uno sottolinea la circostanza che alla guida del Consiglio di Stato, lasciata libera da Filippo Patroni Griffi, ex ministro del governo Monti, sia subentrato Franco Frattini, al cui eccellente profilo istituzionale (magistrato, più volte ministro, commissario europeo) si è abbinato per molto tempo il ruolo politico di esponente di punta di Forza Italia, assai vicino a Silvio Berlusconi per il quale scrisse una controversa legge sul conflitto d’interessi, prima di rientrare dopo la lunga militanza nei ranghi della magistratura amministrativa.
Un dibattito destinato ad alimentarsi se Berlusconi dovesse coronare il sogno di diventare il Presidente della Repubblica, portandosi appresso il suo consistente carico di conflitti personali con la magistratura su cui il Consiglio di Stato ha assunto un ruolo così rilevante.
Ciònonostante, e malgrado i proclami, di riforma della magistratura non si parlerà almeno sino all’elezione del nuovo presidente. Forse è ora di capire che il problema non è solo normativo, ma molto più profondo e riguarda la rete di interessi, relazioni e conflitti dentro l’alta burocrazia statale che impedisce una completa trasparenza sui processi di selezione della classe dirigente.
Giuliano Ferrara ama sostenere che la rivoluzione in Italia non sia possibile perché «ci conosciamo tutti». Ecco forse il problema è questo, e certo non è di facile soluzione: perché è una questione di mentalità.
Mentre scrivevo questo articolo, Repubblica ha dato notizia con molta enfasi che l’estensore delle due sentenze che hanno invalidato le nomine di Curzio e Cassano è stato ammesso al Consiglio di Stato da una commissione di cui faceva parte il candidato ricorrente Angelo Spirito. La novità girava sulle chat dei magistrati stamane: ed è il miglior commento a ciò che ho scritto.