Complice lo slittamento resosi necessario (inutile ribadirlo), nel 2022 si incroceranno la Biennale di Venezia e documenta. Mai come in questa occasione all’arte contemporanea si chiederanno risposte, se non soluzioni, rispetto a un panorama del tutto inimmaginabile quando Cecilia Alemani e Ruangrupa ricevettero l’incarico da curatori delle rispettive mostre.
Difficile pensare che il risultato finale non sia stato influenzato da almeno due fattori entrati come traumi nel mondo dell’arte. Il primo, facile a dirsi, è legato alla pandemia, il secondo al pieno diffondersi del digitale, che questa volta non si limita a semplici riproduzioni artificiali come già accadde nella prima enfatica onda degli anni ’90, ma all’ipotesi sempre più radicata della mediasfera e della circolazione dell’opera su piattaforme virtuali alternative al sistema reale, con l’obiettivo di creare un sistema finanziario alternativo.
Rispetto ad altre “rivoluzioni” – la fine dei mezzi tradizionali, la smaterializzazione dell’oggetto, l’avvento del video ecc…– questa volta è il sistema tutto a essere chiamato in causa, non un particolare linguaggio. C’è da supporre che la differenza la faranno da una parte i nativi NFT e dall’altra chi si adatta per non sentirsi superato dal corso degli eventi, e già me li immagino i nuovi boomer dell’arte a produrre file digitali del tutto inutili se non risibili.
L’arte, in ogni caso, ha solide basi storiche e prima di recitare (per l’ennesima volta) il de profundis di una storia ultramillenaria ci penserei almeno due volte. Soprattutto a Venezia, dove intanto Alemani non ha cambiato il titolo originario della mostra lasciando cioè “Il latte dei sogni”, citazione di un libro di illustrazioni degli anni ’50 della surrealista Leonora Carrington. È il passato insomma a innescare la suggestione sul presente, le modificazioni mostruose del corpo umano verso la macchina in un clima che ricorda il post-human di fine ’900, adattata alla chiave politica del presente, a mettere «in discussione la visione moderna e occidentale dell’essere umano – in particolare la presunta idea universale di un soggetto bianco e maschio, uomo della ragione – come il centro dell’universo e come misura di tutte le cose. Al suo posto, contrappongono mondi fatti di nuove alleanze tra specie diverse e abitati da esseri permeabili, ibridi e molteplici, come le creature fantastiche inventate da Carrington», spiega Alemani nel suo testo programmatico che non svela nulla sulla scelta degli artisti ma che certamente promette un tema molto forte e attuale.
«Oggi il mondo appare drammaticamente diviso tra ottimismo tecnologico, che promette il perfezionamento infinito del corpo umano attraverso la scienza, e lo spettro di una totale presa di controllo da parte delle macchine grazie all’automazione e all’intelligenza artificiale. Questa frattura è stata acuita ulteriormente dalla pandemia del COVID-19, che ha intrappolato gran parte delle interazioni umane dietro le superfici di schermi e dispositivi elettronici e ha intensificato ulteriormente le distanze sociali. In questi mesi la fragilità del corpo umano è diventata tragicamente più evidente ma allo stesso tempo è stata tenuta a distanza, filtrata dalla tecnologia, resa quasi immateriale e disincarnata».
Fedele all’approccio di famiglia – anche Massimiliano Gioni alla Biennale del 2013 sperimentò l’approccio colto con Il palazzo enciclopedico, sicuramente la migliore edizione dell’ultimo decennio – Alemani mixerà elementi di vario genere ma c’è da supporre che l’opera sarà ancora centrale, se non protagonista.
Cosa che difficilmente succederà a Kassel per la documenta 15. Ai tedeschi preme essere sempre all’avanguardia, già nel 2017 la direzione venne affidata a un artista, Adam Symczyk, con il risultato di una mostra brutta e costata ben di più rispetto al budget preventivato. Ora tocca a Ruangrupa, collettivo indonesiano di artisti/attivisti che lavorano soprattutto in rete.
Ennesimo cambio di prospettiva: superato lo sguardo occidentale, l’opera resterà accessoria rispetto alla discussione che immaginiamo arricchita da conferenze, panel, invasione di contenuti sulle piattaforme social.
Certamente gli ultimi dieci anni di Kassel hanno decretato la fine del mestiere del curatore come colui che riusciva a influenzare il mercato, favorire la carriera di un artista e accentrare su di sé il potere. Tra blockchain e attivismo culturale questa professione sembra già tramontata dopo poco più di mezzo secolo e non mi stupirei che i curatori tornassero a fare i critici, gli studiosi, gli accademici con maggior sostanza.
Tra Venezia e Kassel (sperando di poterle visitare senza mascherina) dovremmo certamente trarre risposte sullo stato dell’arte nell’era pandemica. Oltre al megaevento, almeno in Italia si continua a respirare l’aria del classico che appaga un pubblico molto più vasto e meno specialista ma morde poco sull’attualità, che poi è la vocazione del contemporaneo. Non mi riferisco certo alle mostre dedicate all’antico – Donatello, Tiziano, Canova, Bosch – alla ricognizione sui protagonisti tra ’800 e ’900 – Van Gogh, Kandinskij, i surrealisti – e neppure ai “new blockbuster” che puntano sulla fotografia perché incontra il favore del botteghino.
Anche grandi artisti viventi e in piena attività come lo scultore anglo-indiano Anish Kapoor atteso all’Accademia di Venezia durante la Biennale e il danese Olafur Eliasson che sarà a Palazzo Strozzi sono assurti alla sfera del classico, tanto risulta distante il primato dell’opera nel loro lavoro rispetto a ciò che pare essere il suo destino. Anni fa sarebbero state mostre per specialisti, oggi risultano avanguardia digerita dunque alla portata di tutti o quasi.
L’evento più atteso per l’arte italiana nel 2022 sarà certamente l’apertura delle due nuove sedi di Gallerie d’Italia, il complesso museale di Intesa Sanpaolo che si avvia a diventare la maggior potenza con un progetto che in Europa ha pochi uguali. Attese per la primavera (forse fine aprile) le inaugurazioni, a Torino, con uno spazio gigantesco, tutto nuovo, nel cuore di piazza San Carlo, progettato da Michele De Lucchi e destinato soprattutto a fotografia e video.
A Napoli, invece, GdI si sposta di pochi metri, sempre in via Toledo, da Palazzo Zevallos Stigliano alla sede novecentesca dell’ex Banco di Napoli, mirabile esempio di architettura fascista disegnata da Marcello Piacentini negli anni ’30 e rivisitata anche in questo caso da De Lucchi: troverà posto la collezione, compreso ovviamente Caravaggio, e un progetto articolato di mostre su cui, al momento, vige la massima segretezza. C’è da chiedersi come questa operazione così ambiziosa riuscirà a spostare l’asse in due città, Torino e Napoli appunto, per definizione molto affamate di cultura e a tratti assai propositive.