Il vero scandalo della letteratura italiana del Novecento è Carmelo Bene, certo non Pier Paolo Pasolini. Scandalo, in senso proprio: pietra d’inciampo. Ora, nessuno come Carmelo Bene è stato pietra d’inciampo nei meccanismi di una modernità che nel secolo ha prodotto le malattie che l’hanno divorata: le figlie naturali del Metodo. (Karl Kraus, che era e pensava a Vienna nel momento giusto, sulla più letale delle figliastre: “La psicoanalisi è quella malattia mentale di cui crede di essere la cura”). Si trattava e si tratta di togliersi di torno i nuovi Tartuffe e trovare il proprio luogo. Carmelo Bene era nato per il teatro e il teatro era il suo luogo: la radura del sacro. Con lui, in quella radura la voce e il corpo sono strumenti e primi.
(Quanto a Pasolini, in attesa del diluvio di libri et similia per via di anniversario, rubo la formula di Alfonso Berardinelli: “un grande scrittore mancato”. Non è qui il luogo per elaborare la formula in un discorso: lo farò, passata la buriana. Posso già dire che aspetto con impazienza il saggio di Walter Siti – scrittore del tutto compiuto – che accompagna l’edizione critica di Petrolio: quel che c’è da dire oggi su Pasolini l’ha detto e scritto Siti, nei testi che ha dedicato alla sua opera).
Avere la fortuna di ascoltare e così vedere Carmelo Bene nel suo Macbeth, oppure come lettore di Dante o di Dino Campana: sapere per folgorazione e non poter più dimenticare il teatro come arte della voce e del corpo: interpretazione in purezza. Ascoltare e così vedere Carmelo Bene era scoprire una libertà inaudita. Altro non serve né deve servire, a vent’anni e pochi di più. Tutto mentre l’orda dei Vetrinisti (coloro che confondono gesto estetico e opera d’arte) dilagava nei teatri, nelle gallerie d’arte e perfino nelle piazze. Entrare in teatro e scoprire che il teatro non è spettacolo, riproduzione spettacolare di un testo, è ben di più: questo è stato Carmelo Bene. Tutto, sta in quel “di più”: l’attore-artefice, il suo essere è quel di più. Bene è artefice di se stesso – uno dei rari casi in cui vale dirlo.
Jean-Paul Manganaro, che con Carmelo Bene ha vissuto l’amicizia, pubblica ora presso il Saggiatore un libro che potremmo dire un monologo drammatico. In scena non sono i fatti dell’amicizia – solo qualche pudico accenno – ben sì la memoria del passaggio dell’attore-artefice, “pettinatore di comete”, sul palcoscenico della propria opera. “Conoscere Carmelo non significava conoscere una persona, ma conoscere un insieme particolare del molteplice, risolto in una singolarità tra le più selvaticamente complesse espresse della nostra epoca, intrisa in lui di una italianità specifica, che non somigliava alle altre”. Manganaro cerca nel monologo il modo per dire quella singolarità e il molteplice che sta all’origine: nel tono del recitativo barocco il dire l’inventore del “concerto d’attore”: il “concerto parlato” che è Bene. Una scelta ardita e singolare che l’artista-artefice sembra chiamare, in certo modo: un monologo che è esercizio di ècfrasi dell’essere Carmelo Bene.
L’incipit è già il primo e uno dei migliori atti dell’esercizio, e per via di un costume che tale non sarà ma ben sì “dispositivo” di scena: “La camicia dev’essere comoda, né larga né stretta. Semmai un po’ larga, soprattutto al colletto, e anche all’attacco delle maniche. Evitare la seta, è troppo calda in scena. Per i polsini è diverso, meglio stretti, cinque bottoni, sempre dispari. Il polsino deve scendere dalla manica oltre il centimetro, il centimetro e mezzo, mai di più, quel bianco si vede da ogni posto, in qualunque teatro, anche all’aperto, esaltato com’è da quel frullo riccio che andrà svolazzando per aria (…) La giacca sarà determinante, il suo taglio perfetto, alle spalle, all’inizio delle braccia, e soprattutto alla scollatura che dev’essere precisa, senza esitazioni, andar giù dritta, costringere lo spazio bianco della camicia a dilatarsi proprio perché rinchiuso ai lati (…) Da questi che sembrano dettagli, deve essere inciso il gesto, scattante e breve, a volte laconico: ogni bianco, polsino, triangolo della camicia, volto sono gli elementi attivi nel nero funebre che li circonda”. Par di vedere Carmelo Bene in scena e di leggere un suo testo: che sia una parafrasi? Manganaro ricorda come questo costume-dispositivo abbia accompagnato per lungo tempo gli spettacoli dell’attore-artefice: “Comincia pressapoco con Riccardo III, finisce disfatto con In-vulnerabilità d’Achille”. Dove quel disfarsi del costume è sostanziale, quanto il devastarsi del corpo dell’attore. Un incipit ardito e felice che fa di un leitmotiv una scena, e indica.
Pure la materia incandescente dell’opera di Bene è resistente al recitativo: vien da dire che mal le aggrada. (D’altro canto un esercizio di pura narrazione sarebbe respinto nel ridicolo). Manganaro imbocca la strada e non si volta indietro: confida nella conoscenza dell’opera di Bene e la sua singolarità, in tutte le nuance. A volte basta e l’intreccio recitativo tiene; altre volte la vegetazione invade la pagina, copre. Una sorta di eretismo emozionale travolge l’intonazione recitativa.
Succede, con Carmelo Bene. Pure vale la pena inoltrarsi nella giungla lessicale, aprire un sentiero di comprensione nel tumulto che è la prosa di Manganaro – si fa anche questo, per l’attore-artefice, e non è per affetto di lettore: è per rimembranza. D’altro canto lo scrittore italo-francese ha il merito di mettere in luce alcuni dei temi fondamentali a intendere l’opera di Bene (pare un calembour – va bene così), tutto quel che dice lo scandalo del suo teatro, che altro non è se non scandalo del genio. (“Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può”, è il folgorante incipit della Autografia con ritratto di Carmelo Bene: basterebbe leggere questa falso-amabile amenità, immaginarla dalla voce dell’attore: un po’ per celia un po’ per non morire). Ecco che Il corpo devastato, Ritratto senza corpo, Una lingua barbara transeunte, sono le parti del monologo utili a intendere il discorso di Manganaro; Dell’oltranza una parte che tutte le contiene; Carmelo Bene e Shakespeare: l’humour del tragico, è la parte dove il lettore ritrova il bandolo della matassa e si concede al piacere di leggere, o almeno così crede. Poi è il tempo della esortazione, Ai leccesi, e delle Confidenze, asciutte e ammirevoli per via di modi, un certo garbo.
La lingua italiana di Carmelo Bene: bisogna dirne, con Manganaro. Prima vale però ricordare un fatto che è segnale di distanza e di grandezza: Bene lo si può leggere soltanto dopo averlo ascoltato. (Chi non ha avuto la fortuna di poterlo fare dal vivo può accedere alle registrazioni). È la sua voce a contare, a dire le parole e le cose. Una volta ascoltato, una soltanto, lo si può leggere e lo si fa a tempo: è letteratura. Manganaro: “L’italiano, la lingua, la lingua italiana di Carmelo Bene è esemplare. Anzitutto perché è lingua poetica: squillante e splendente nella sua stesura, assorbe le necessità del dire e del pensare in qualcosa che è sempre essenziale, tanto in essa è venuta meno ogni ridondanza o retorica”. Ora, dire “poetica” la lingua di Bene non trova il favore, se non a patto di intendere “poesia drammatica”, quale si diceva un tempo un testo teatrale, e non “poesia lirica”; e giusta a evitare l’uso e l’abuso se non il sopruso dell’aggettivo “poetico” in senso lato e dilagante. La lingua di Bene è poesia drammatica in essenza e oltre. Quanto al venir meno di ridondanza, come non esser d’accordo, ma non della retorica: ogni testo letterario, e quelli di Carmelo Bene non fanno certo eccezione, sostiene una istanza retorica. Rimane il fatto che è “esemplare”, alla lettera – anzi, è emblema.
La poetica di Carmelo Bene è poetica della oltranza, come ben ha visto e disegna per punti e linee essenziali Manganaro. Travestimenti in successione a compiere la negazione dell’io e del soggetto; negazione dello statuto di riferimento alla “realtà”, per pervenire a uno stato di irragionevolezza e derisione, una nuova forma di idiozia che è visione; evocazione e costituzione del femminile come divinità dell’umano, in forma di Madonna o di “sante di sostituzione” – “il femminile «madonnale» o «verginale», il femminile della bambina e della vita bambina, spogliate del loro lato «donnesco»”; la ripetizione e la variazione come segnali della inanità in quanto tale, la coazione a ripetere e l’impedimento come gesti dell’attore-artefice che fissa l’idea di “una poetica del ritorno delle cose verso l’identico in quanto probabilità”; il motivo del quadro, la pittura o lo specchio, come figurazione in “pura realtà di miracolo, di percezione aleatoria, di percezione «tremula»”. Ora, non è difficile riconoscere in questi punti le istanze del barocco; più il parossismo che è il motore silenzioso della macchina teatrale dell’attore-artefice, il suo inferno. Basterà leggere un testo di Bene, una delle sue “partiture”, per intendere come sappia le figure consonanti alla poetica dell’oltranza: i tropi e le volute del barocco. Prima o poi bisognerà farlo e per bene: è il momento giusto.
Oratorio Carmelo Bene è un libro di ardua lettura e di ritorno prezioso: indica i modi del molteplice che è l’attore-artefice Bene. Basta questo e la passione a sostenerlo. Ecco il finale di “Macbeth” o il tramonto della solitudine: “Forse vi ho raccontato poche cose. È quanto mi è riuscito immaginare. Ma la vita che conta non è appunto proprio quanto ci manca? / Quante inezie vi avrei risparmiato, se fossi a questo mondo e Dio esistesse”. Ci fosse oggi, un Carmelo Bene.