Falce e appeasementLa pavida neutralità della Cgil e la contraddizione dei pacifisti

Nei giorni della spietata guerra di Putin chiedere un blando cessate il fuoco e organizzare una generica manifestazione anti violenza è una offesa alla resistenza ucraina. Arrendersi a un dittatore significa consentirgli altre aggressioni

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La Cgil prende parte alla manifestazione per la pace di oggi a Roma indetta dalla Rete per il disarmo (Maurizio Landini la concluderà dal palco) mentre la Cisl non aderisce. Nella piattaforma della manifestazione si leggono tante cose: «Bisogna fermare la guerra in Ucraina. Bisogna fermare tutte le guerre del mondo. Condanniamo l’aggressione e la guerra scatenata dalla Russia in Ucraina. Vogliamo il “cessate il fuoco”, chiediamo il ritiro delle truppe. Ci vuole l’azione dell’ONU che con autorevolezza e legittimità conduca il negoziato tra le parti. Chiediamo una politica di disarmo e di neutralità attiva». 

Più generici di così è difficile essere. Certo, c’è la frasetta di condanna della Russia. Ma è del tutto assente l’appello ad appoggiare politicamente, idealmente e con ogni mezzo la resistenza ucraina, cioè manca l’indicazione sul da che parte stare, l’individuazione di chi ha ragione e chi ha torto: e non essendoci il qui e ora con una chiara contestualizzazione dell’iniziativa, la piattaforma diventa una mozione retorica, una melassa buona per tutte le stagioni. 

Per non dire che, in questa situazione, si potrebbe discutere a lungo del disarmo (non la pensa così la sinistra europea, a partire dal Cancelliere tedesco Olaf Scholz) e della neutralità attiva: ma quale neutralità, dinanzi al nuovo fascismo di Mosca? 

Si tratta della rimescolatura della retorica pacifista degli anni Ottanta che per carità fu un elemento di contrasto alle tendenze aggressive di Ronald Reagan intrecciate con quelle della fase finale dell’Urss ma che conteneva anch’essa un bel grumo di ambiguità. Oggi, fallito da decenni il Dio del comunismo, ogni reticenza è fuori dal mondo. 

La notizia è che la Cisl non è scivolata in questa melassa. Lo ha scritto chiaramente Luigi Sbarra, di cui riportiamo solo una frase: «Non possiamo certo riconoscerci in parole d’ordine come neutralità attiva. Una solidarietà vera, tangibile, richiede piuttosto l’attivazione delle articolazioni sociali per aiutare concretamente donne, uomini, bambini che in questo momento hanno bisogno di un supporto urgente e tangibile». 

In una giusta manifestazione per la pace bisognerebbe che ci fosse scritto chiaramente che fanno bene i paesi europei, uniti come non mai, a fornire ogni forma di assistenza all’Ucraina, inclusa quella militare e che Putin va ostacolato e indebolito in tutti i modi, il più possibile. Questo serve, alla pace. Altro che neutralità. Da tutto questo si evince che il pacifismo è davanti a un dilemma di non poco conto. 

Ieri a Roma duemila studenti hanno manifestato per la pace con le bandiere arcobaleno e con dei fazzoletti bianchi. Inconsapevolmente questi ragazzi hanno esposto in modo plastico il problema di fondo del pacifismo nei giorni della guerra di Vladimir Putin: il rischio concretissimo che i colori della bandiera arcobaleno si stingano nella bandiera bianca della resa. 

La resa non è pace. È una pausa tra una guerra e un’altra. Così il pacifismo incappa in una contraddizione persino filosofica: se mi arrendo, non sto facendo la pace, sto creando le promesse per una nuova guerra (oltre a mandare al macello gli sconfitti). 

Naturalmente ci sono i pacifisti veri e quelli finti come quelli che imperversano nei mille talk show – dove si sta ripetendo la spettacolarizzazione di una nuova tragedia dopo quella della pandemia tra sì vax e no vax adesso sostituiti tra anti-Putin e filo-Putin – pacifisti a chiacchiere che dopo alcuni giorni di silenzio ora sostengono la brillante exit strategy della resa del popolo ucraino dato che Putin ha già vinto e quindi si possono risparmiare molte vite umane. 

Ragionamento che ha una sua presa, come tutte le asserzioni demagogiche, ma che si fonda sulla vigliaccheria di far finta di non sapere che sempre nella Storia arrendersi a un dittatore – lasciandogli quello che vuole, ieri i Sudeti oggi l’Ucraina – significa dargli altra mano libera, consentendo altre aggressioni, facendo altre vittime. 

Quelli che come il professor Alessandro Orsini e la professoressa Donatella Di Cesare (che  a sprezzo del ridicolo già rimproverò a Draghi di fare una guerra senza essere stato eletto) invitano gli ucraini ad arrendersi e a capire le ragioni di Mosca in realtà stanno accettando la legge del più forte che consente al primo malato di mente di cambiare a suo piacimento le carte geopolitiche. 

Costoro si nascondono, come detto, in un presunto pacifismo chiacchierone che non distingue (o se lo fa, lo fa en passant) tra aggressore e aggredito, non prende parte, non si schiera, imbelli come Édouard Daladier e Neville Chamberlain che nel settembre del 1938 firmarono l’accordo di Monaco con Adolf Hitler e Benito Mussolini. 

Tutti siamo per la pace, manco a dirlo. Il punto è definirla: è pace un’occupazione militare come quella che il Cremlino immagina per l’Ucraina? È pace assistere a una carneficina senza muovere un dito? Evidentemente no. 

E dunque chiedere la pace significa prendere nettamente posizione, senza indugi e ambiguità: servono manifestazioni contro Putin e per l’Ucraina. Peccato che un grande sindacato coma la Cgil non lo capisca e che questa volta non combatta.

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