Vladimir Putin è ossessionato dalla paura di contagiarsi. Lo dimostrano i tavoli chilometrici, l’isolamento che lo circonda. È uscito dalla Russia solo due volte durante la pandemia: l’ultima, a dicembre 2021, è stata per andare in visita a Nuova Delhi. Dal 2014, quando Narendra Modi è diventato primo ministro, i due si sono incontrati venti volte. L’India, che all’Onu si è astenuta sulla condanna all’invasione dell’Ucraina e studia come commerciare con Mosca nonostante le sanzioni occidentali, si professa «neutrale». Tra le pressioni americane e la Cina ai confini, scricchiola una terza via figlia della Guerra fredda.
Del vertice di dicembre ci sono le foto, con i sorrisi a favore di camera. La stretta di mano sconfina in mezzo un abbraccio, nessuna traccia del distanziamento sociale siderale ritratto, in tv e in patria, anche nelle riunioni ai piani alti del regime.
Oltre agli equilibrismi geopolitici che sono una costante necessità nella storia dell’India indipendente, tra Modi e Putin c’è una sintonia politica: il nazionalismo machista, l’ideologia autoritaria ammantata di tradizione, la connessione messianica con il popolo profondo, individuato su base etnica.
In quell’occasione, tre mesi prima dell’attacco all’Ucraina, i due leader hanno firmato un accordo decennale di cooperazione difensiva. L’asse tra Mosca e Nuova Delhi risale al Novecento: la Russia è la prima fornitrice di armi del gigante asiatico, settimo Paese al mondo per estensione e secondo per numero di abitanti. Tra il 1950 e il 2020, è passato su questa direttrice il 65% del materiale militare comprato dall’India. Carri armati, sottomarini, aerei, il sistema missilistico S-400 da 5,4 miliardi di dollari scelto a discapito di quello americano, ma «ordinato prima delle sanzioni», per evitare rimostranze dalla Casa Bianca.
Il governo indiano sta lavorando a un sistema per eludere il blocco commerciale alla Russia. I traffici avvenivano in dollari, ma come scrive il Financial Times un ritorno ai pagamenti con rupie e rubli consentirebbe agli scambi di proseguire.
In particolare, l’India potrebbe ancora acquistare il petrolio russo, magari a un prezzo scontato dopo il bando di Stati Uniti e Regno Unito e il piano europeo per ridurre la dipendenza che finanzia le guerre dello zar. Con uno schema simile, erano continuati i rifornimenti di petrolio iraniano, finché Donald Trump non se n’è accorto.
Vale 8 miliardi di dollari il volume mercantile con la Russia, l’obiettivo era portarlo a 30 miliardi entro il 2025. Poi è arrivata l’Ucraina. Il 24 febbraio, il giorno dello choc collettivo, Modi ha telefonato a Putin e gli ha chiesto l’«immediata cessazione delle violenze». Non ci sono però state, da parte né dell’esecutivo né della diplomazia, condanne ufficiali. Da membro temporaneo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, anzi, l’India si è astenuta sulla risoluzione più importante, quella dove si chiedeva al Cremlino di interrompere un’aggressione antistorica e criminale.
L’India è una nazione «non allineata» da sempre. In queste settimane, ha dialogato sia con Mosca sia con Kiev, soprattutto per evacuare i suoi 15mila cittadini in Ucraina: quasi tutti studenti, chissà quanti da quella città universitaria viva che era Kharkiv. Le manovre finanziarie rischiano di irritare un partner come gli Stati Uniti, che sono la principale destinazione delle esportazioni indiane, per 50 miliardi di dollari ogni anno. La bilancia commerciale con la Russia è in negativo, perché l’India insiste per tenere aperto il canale?
Le ragioni principali sono due e sono collegate: le armi e gli equilibri regionali con la Cina. Se l’India vende in Russia soprattutto farmaci, importa da lì fertilizzanti, prodotti energetici e, appunto, armamenti.
Il legame è nato nel secondo dopoguerra ed è tra le poche cose sopravvissute al crollo dell’Unione sovietica. «Mosca è stata un’alleata affidabile per Nuova Delhi quando non lo era nessun altro», ha riassunto un articolo di Foreign Policy. A ridosso dell’indipendenza, il primo ministro Jawaharlal Nehru si ispirò all’economia socialista sovietica, la cooperazione sarebbe diventata così stretta che tra il 1970 e il 1992 la Banca centrale indiana garantiva la convertibilità tra rubli e rupie. L’aiuto del Cremlino è stato cruciale per vincere il conflitto di tredici giorni con il Pakistan del 1971.
È da allora che l’India dipende da Mosca per l’equipaggiamento e i mezzi militari, spesso comprati in credito. Nel 1957, 1962 e 1971, tra l’altro, l’Unione sovietica è stata l’unica nazione a opporsi con un veto all’intervento dell’Onu nella valle del Kashmir contesa col Pakistan. In un certo senso, con l’astensione di questi giorni l’India sta ripagando i favori di mezzo secolo fa.
«Claustrofobia». È come il professore di Politica estera Happymon Jacob ha descritto al New York Times la condizione che il Paese soffre nell’Asia centrale e meridionale. Sulla frontiera settentrionale, quella delle Himalaya, c’è la Cina. Schiacciata tra il Pakistan e Pechino, entrambi dotati della bomba atomica, per la sua sopravvivenza l’India non può affidarsi solo all’Occidente, troppo lontano. A maggior ragione dopo il ritiro dall’Afghanistan. Per questo ha bisogno della Russia.
Il confine è militarizzato. La Cina ci ha costruito infrastrutture per le truppe. Ci sono stati incidenti e vittime. Quando nel 2020 la tensione è tornata ai massimi, con i primi scontri (non a fuoco, ma con le mazze chiodate) nel Ladakh, è stata Mosca a organizzare un vertice trilaterale con Pechino e Nuova Delhi. La mediazione russa è stata decisiva per disinnescare una potenziale escalation. In quell’occasione, il Cremlino si è impegnato a inviare armi nel giro di due o tre mesi, se l’India lo richiedesse.
Modi teme di perdere un garante se lasciasse la Russia nelle braccia della Cina, che è il primo partner commerciale di Putin. Una subalternità che fanno presagire la richiesta di armi a Pechino e l’allineamento propagandistico tra i due regimi.
In funzione anticinese, l’India fa parte anche del Quad, un’alleanza strategica informale con Giappone, Stati Uniti e Australia. Negli ultimi anni si è rafforzata anche la collaborazione con Washington: gli acquisti di armi americane sono saliti da zero a 20 miliardi di dollari nel giro di un decennio.
Per questi motivi, l’India non ha voluto, o potuto, smarcarsi dalla Russia. Neppure il capo dell’opposizione a Modi, Rahul Gandhi, si è schierato pubblicamente contro l’invasione. In America l’hanno interpretato come un tacito assenso all’imperialismo putiniano. Al tempo stesso, l’astensione condivisa con Pechino all’Onu non va letta come una convergenza con un nemico storico che è ancora considerato tale. Nuova Delhi è tra due fuochi, ma sul lungo termine l’immobilismo rischia di allontanarla dall’Occidente senza controbilanciare lo strapotere cinese. Sarebbe il fallimento della terza via.