Affascinante e difficile. Ricca e complessa. Bella nonostante qualche caduta nel kitsch con troppe perline, sabbiette e manifatture domestiche. La Biennale 2022 si porta dietro molte responsabilità: l’attesa spasmodica dopo un anno di stop che forse ha cambiato qualcosa dall’impostazione iniziale, il post Baratta e il debutto di Roberto Cicutto nella sezione che più conta, la prima assoluta di una direttrice italiana, Cecilia Alemani. Rispetto all’edizione 2019 curata dall’americano Ralph Rugoff sembra di vivere in un altro mondo, nonostante Venezia sia strapiena come nei tempi migliori e i controlli sulle mascherine fortunatamente meno asfissianti: prima fu il Covid e la Biennale. che di solito si costruisce girando per il mondo sempre con la valigia in mano tra studio visit nei cinque continenti, ha avuto una imprevedibile e inedita gestazione da remoto. In ultimo è la guerra: il padiglione russo è chiuso mentre è sorta, all’improvviso, la Piazza Ucraina attorno a un monumento ricoperto da sacchi di sabbia, ci conferma che siamo in trincea e i tempi sono bui.
C’è però un altro avvenimento che avrebbe voluto rivoluzionare l’arte e invece rimbalza clamorosamente indietro confermando il pensiero degli scettici che lo credono un fenomeno passeggero e in fondo poco significativo. A Il latte dei sogni, questo il titolo ispirato a un racconto dell’artista scrittrice Leonora Carrington, gli NFT non interessano. Il digitale non è che uno strumento, un supporto, come lo furono il video (la cui influenza appare molto ridotta già da tempo), la computer graphic e la realtà virtuale. Troppo solide le basi culturali, le radici materiali su cui si fonda l’arte per entusiasmarsi a bolle speculative o azioni finanziarie dove fanno tenerezza gli ultracinquantenni a corto di idee convinti di guadagnare cifre considerevoli a fronte di immaginette da santino. La versione del 2022 è invece quella di un’arte ultra-materiale, a tratti artigianale, che fonda il proprio credo sul fare, sul mettere le mani in pasta, ama le tecniche tradizionali come la pittura, la scultura, il disegno, l’oggetto, le installazioni molto coinvolgenti. Sarà anche vero che il web, gli strumenti del nuovo comunicare hanno cambiato le vite di tante persone riducendo le distanze tra primo e altri mondi, eppure tutto questo non ha troppo a che fare con la costruzione dell’opera d’arte, tra i pochi linguaggi in cui l’emozione della presa visione non può essere sostituita da alcun surrogato.
Se ne parlerà a lungo come un’edizione da record, per il numero di artisti, oltre 200 di cui 180 alla prima Biennale; una stragrande maggioranza di donne non soltanto dai paesi occidentali; frequenti tuffi nel passato e nella storia del ‘900 con le capsule del tempo ideate e allestite da FormaFantasma, a questo punto gli artisti italiani più “decisivi”. Pur mantenendo fede alla centralità dell’opera, Alemani rinuncia a blue chips, grandi classici, nomi che ti risolvono sempre un problema, attinge a piene mani all’Africa e al Sud America, non riesce a districarsi del tutto dalle spire del politicamente corretto che a New York dove vive è moneta corrente e ormai il primo e forse unico criterio di valutazione dell’opera e dell’artista.
Attorno alla Biennale, Venezia ha preparato i fuochi d’artificio con una serie di grandi mostre dove appunto ritrovare quegli artisti forti che danno sicurezza: Anselm Kiefer con una megainstallazione alla Sala dello Scrutinio nel Palazzo Ducale, Anish Kapoor alle Gallerie dell’Accademia e Palazzo Manfrin, il Surrealismo alla Fondazione Guggenheim, Joseph Beuys alla Fondazione Cini, Louise Nevelson alle Procuratie Vecchie che riaprono dopo tanti anni, la rassegna scientifica, un po’ misteriosa, Human Brain alla Fondazione Prada, Afro a Cà Pesaro e il confronto tra Emilio Vedova e Arnulf Rainer alle Zattere. È in programma anche l’installazione di Hermann Nitsch alla Giudecca, primo omaggio postumo all’azionista viennese scomparso due giorni fa.
Tornando invece alla Biennale “ufficiale”, quest’anno il Padiglione Italia potrebbe farcela e aspirare al Leone d’oro. Storia della notte e destino delle comete, la gigantesca opera immersiva di Gianmaria Tosatti selezionato dal curatore Eugenio Viola ha completamente trasformato lo spazio rendendolo irriconoscibile, una scenografia abbandonata di una pièce teatrale ancorata ancora una volta al passato e alla memoria industriale del nostro Paese relittuale se non perduta. Poche volte è capitato di emozionarmi così profondamente per il lavoro di un artista e nonostante le perplessità di affidare una metratura così impegnativa a una sola persona, a clamoroso rischio flop, ha ragione chi ha voluto percorrere questa strada.
Da segnalare infine le partecipazioni della Gran Bretagna con Sonya Boyce, quasi il set di una discoteca anni ’80 e della Francia, la complessa installazione video e performance di Zineb Sedira. La palma del peggior padiglione, tra quelli visti, va agli Stati Uniti con Simone Leigh. Ecco, quando il politicamente corretto fa danni e non riesce a uscire da una visione didascalica e semplicistica.