Nella notte fra lunedì e martedì il presidente Zelensky ha annunciato l’inizio dell’offensiva russa in Donbass, l’annunciata “fase due” dell’invasione. Un’operazione che sarà fondamentalmente diversa dai giorni successivi al 24 febbraio 2022, quando l’esercito di Vladimir Putin aveva lanciato “l’operazione militare speciale” per rovesciare e «denazificare» il governo di Kiev.
L’eufemismo con cui i media ufficiali e il Cremlino hanno ribattezzato le operazioni è in realtà abbastanza utile per capire il cambio di marcia delle forze d’invasione. Questa guerra, almeno inizialmente, non è stata pianificata con una logica eminentemente militare.
Lo spettacolare fallimento del primo assalto è abbastanza rivelatorio delle premesse con cui i russi hanno scatenato il conflitto, che nei piani di Mosca doveva probabilmente essere prima di tutto un’azione politica. La mancanza di una strategia militare convincente suggerisce che il ruolo delle forze armate doveva essere trascurabile e ridotto, almeno nei piani russi, a un calcio ben assestato alle fondamenta già marce dello Stato ucraino. Al più, lo schieramento di centinaia di migliaia di soldati al confine avrebbe potuto servire come strumento coercitivo nel corso dei negoziati con Stati Uniti e Ucraina.
A prescindere da quale delle due chiavi di lettura abbia guidato la strategia russa, è importante sottolineare che il comando russo non sembri essere arrivato con un piano militarmente sensato per la conquista dell’Ucraina.
Da questo punto di vista, la “seconda fase” rappresenta un cambio di passo. Premettendo che lo strumento militare è sempre politico, l’esercito russo sembrerebbe aver ormai preso in mano la gestione dell’invasione, soprassedendo la dimensione civile e pianificando operazioni calibrate su obiettivi militari prima che politici.
Lo scopo dei primi cinquanta giorni consisteva nel decapitare la leadership ucraina e prendere il controllo dei punti nevralgici di un Paese ritenuto sull’orlo del collasso. Oggi si punta a sloggiare le forze militari ucraine dal Donbass e alterare gli equilibri militari a proprio favore, rafforzando (forse) la posizione negoziale di Mosca.
Possiamo dedurre questo ridimensionamento strategico da una serie di indicatori: il ritiro delle forze russe dall’asse di Kiev, il diradarsi della “denazificazione” come obiettivo dichiarato della campagna, l’accentramento del comando delle operazioni sul Distretto Militare Meridionale (che da otto anni ricopre il ruolo di gestore de facto delle forze pro-russe in Donbass).
Alla luce di tutto ciò possiamo anche aspettarci un avvicendamento a livello dottrinale. Gli obiettivi civili e governativi della prima fase del conflitto favorivano un approccio limitato da parte russa, con attacchi mirati e incursioni contro punti chiave (basti pensare al rocambolesco raid delle truppe aviotrasportate contro Hostomel e i tentativi di infiltrazione nel distretto governativo di Kiev).
Un discorso a parte sono le operazioni a sud, nel lembo di terra fra la Crimea e il Donbass, che fin da subito hanno avuto il controllo territoriale come principale criterio di successo. Qui, e verosimilmente anche in questa nuova spinta nel Donbass, i russi hanno condotto un numero maggiore di bombardamenti d’artiglieria e aerei, con l’obiettivo primario di deteriorare le forze ucraine e consumarne le capacità operative. Si tratta di un approccio molto diverso, che piuttosto che all’idea di un’azione risolutiva risponde a una prospettiva del conflitto in cui vince chi riesce a resistere più a lungo al logoramento delle proprie forze militari.
Anche per questo è difficile fare previsioni sulle prossime fasi della guerra. Il principale obiettivo per Kiev non sarà più la pura sopravvivenza dello Stato ucraino, bensì minimizzare le proprie perdite e riuscire a ostacolare l’avanzata russa. Nonostante gli aiuti occidentali è improbabile che gli ucraini siano sufficientemente equipaggiati per condurre un numero soddisfacente di contrattacchi, anche se attorno a Kharkiv abbiamo visto un tentativo di minacciare le reti logistiche russe nel nord del Donbass. Rispetto a marzo, gli ucraini saranno in grado di concentrare i propri asset su un unico fronte. E se i difensori posseggono un numero sufficiente di blindati da trasporto saranno perfino in grado di montare la difesa mobile che avrebbero voluto organizzare nella prima fase della guerra.
A vantaggio delle forze del Cremlino rimane una schiacciante superiorità di mezzi e armi, la possibilità di continuare a colpire le infrastrutture critiche ucraine dietro le linee e di esercitare una pressione costante dalla Bielorussia, oltre che la capacità di rifornire le proprie unità senza disturbo da parte delle forze missilistiche ucraine.
Ma un cambio di priorità non basta per dimenticare il prezzo degli errori passati. Le unità spostate precipitosamente da altri fronti in Donbass hanno il morale a terra, hanno una capacità di combattimento largamente degradata e sono ancora suscettibili alle regole oggettive della guerra (a parità di forze sono i difensori a essere in vantaggio) oltre che alle debolezze già diagnosticate: logistica inadeguata, cieli ancora contestati, una struttura di Command & Control a tratti disfunzionale.
Tutti attributi che lasciano aperta la partita e garantiscono un catastrofico ricorso all’artiglieria anche ai danni dei civili, oltre che la pressione a concludere questa fase dell’operazione prima dell’arrivo di ulteriore equipaggiamento occidentale.