Caro Fulvio,
anche io, mentre scrivevo le ultime parole raccontandoti della ricerca che sto effettuando perché venga al meglio la nostra kermesse alla Cabane di gauche caviar, mi sono imbattuto nelle immagini che arrivavano crude dal nostro Est. Se ci si collega su YouTube si può vedere in tempo reale la piazza di Maidan a Kiev o Kiyv, come abbiamo imparato a dire. Tralascio tutte le considerazioni retoriche sulla guerra, non perché abbia orrore del sangue, non perché i racconti a voce, o quelli letti, non me ne abbiano dato sufficiente contezza; la guerra l’ho scoperta grazie ai nonni, a mio padre naturalmente, e alla lettura in classe di Hemingway. Ricordi la scena del suo romanzo che si svolge negli stanzoni dell’Ospedale Maggiore di Milano? Se possibile, il nostro bisogno di socialismo aumenta proprio perché si è materializzato dinnanzi a noi il crollo verticale della globalizzazione economica, le cui conseguenze non sono altro che le scene di guerra che stiamo osservando. Non c’è più equilibrio nel mondo e ciascuno si sente autorizzato a recuperare la “roba” che ritiene sua, non rispettando gli ordini e i confini dati.
Se la vicenda putiniana ci narra di un doppio complesso edipico – verso la Madre Patria Ucraina da parte dei russi e verso il padre, il comunismo imperiale che vogliono riscattare –, è anche vero che per una curiosa nemesi storica s’invera il vaticinio di Vladimir Ilič Lenin, ovvero che il capitalismo ha offerto loro la corda con la quale stanno per impiccare le società libere e democratiche. Putin, che tu vuoi giustamente vedere processato a L’Aia per crimini di guerra, non è altro che il nostro fornitore unico di energia senza il quale non potremmo più accendere il computer o inviarci questo scambio epistolare. In ragione di questo, meno prosaicamente, ci tiene per le palle almeno fino a quando non riusciremo a convertire la nostra autosufficienza energetica. Questa è la ragione per la quale ha invocato una nostra indulgenza, se non quando una complicità, adottando neutralità nella vicenda che sta regolando con le antiche repubbliche sovietiche ovvero con i pezzi ormai separati dell’Impero. Questo focolaio di guerra ha decretato la fine della globalizzazione, che non poteva reggersi senza un ordine politico. Ritornano gli imperi, e gli imperi sono obbligati a combattersi fra di loro.
Il dominio o l’obbligo della ragione ci impongono di aspettare che passi la piena, e passerà, di abituarci agli scossoni che la Storia può ancora darci, ad attrezzare la nostra Cabane o il nostro Chiringuito o di un rifugio antiatomico o quanto meno di un angolo dove ripararci «in caso di disgrazia» per dirla con Georges Simenon. Al dunque rifiutare eventuali richiami in armi cestinando la lettera di convocazione o farsi raccomandare da cugini del sottosegretario alla Difesa. Io ho già servito il mio Paese, prestato giuramento e congedatomi anzitempo l’anno prima della nostra entrata in guerra per l’Iraq. Pronto a morire per la Patria e anche per difendere le mie e le nostre idee. «… Vabbè ma di morte lenta», come cantava Brassens.
Nel frattempo, mi industrio per trovare una foto di Nestor Machno, l’anarchico ucraino; l’iconografia della guerra appare sempre la più tragica ma la più cruda espressione della trasfigurazione dell’essere umano quando imbraccia un’arma, scempio dal quale non sono stati risparmiati neanche i bambini; ricorderai la foto di Marina Ginestà Coloma, la giovane miliziana catalana, bella, immortalata sul tetto di un palazzo che si affacciava su Plaza de Cataluña a Barcellona, fiera nella sua difesa contro l’avanzata franchista del ‘36 e altre ancora.
Era Europa anche la Spagna che difendevano i democratici all’epoca. Erano un crogiolo di valori ciò che esaltava Albert Camus nel suo discorso ad Atene nel dopoguerra, non un insieme di alambicchi burocratici a stelle variabili. In essa io mi ci riconosco senza fare dell’Europa un altro nazionalismo, ma una alleanza internazionale duratura, e già moneta, passaporto, tessera sanitaria ed Erasmus mi sembrano piccole ma significative conquiste, più che le dottrine sul formaggio o sul pesce che i pescatori portoghesi devono rigettare in mare o il latte che sversano per protesta gli agricoltori sardi.
Sono tuttavia interessato, tornando a noi, che le nuove direttive europee non intacchino il nostro obiettivo della Cabane sul mare, perché, non te l’ho detto, ma penso che la prospettiva non potrà che essere quella di allargare la nostra alleanza umana ai popoli che si affacciano sul Mediterraneo. Se non ci chiudiamo nell’integralismo nazionale e religioso, l’integrazione ci metterà al riparo da tutte le oscene contraddizioni del mondo che è libero solo nella circolazione dei capitali. In questo rivive il nostro neo-socialismo, che poi a guardare bene non è dissimile da quello dei nostri nonni. Ma ora un po’ più adulto e un po’ più saggio.
Mi raccomando, Bobo,
devi chiamare al più presto Filippo, sì, Panseca, nostro artista di fiducia; fra l’altro, come me palermitano, non che sia una garanzia, ma ci consegna comunque un’idea di familiarità, sapore di pane con le panelle e pane con la milza. Per anni ho avuto in casa un suo lavoro dal titolo: Opera consumabile, un disco di metallo che aveva al centro una pasticca. Da consumare, come fosse una ideale micropunta di lsd, immagino.
Filippo nostro, a questo punto, deve progettare per noi un palco dal quale annunciare le ragioni, doverosamente narcisistiche, della gauche caviar, e che questa volta sia più grande del Partenone, del Colosseo, del Vittoriano, del Taj Mahal, del Grattacielo INA di Palermo.
Non era forse Filippo che, fra molto altro, aveva messo il podio di tuo papà al centro di una piramide, o forse un tempio, al tempo dei congressi plebiscitari, per acclamazione, del Partito socialista italiano? Ora che ci penso, anni dopo, sempre lui, Filippo Panseca, ha perfino disegnato, testualmente, il «podio da trasporto in cartone riciclabile», proprio con fustella di cartone, con tanto di misure e indicazioni per tagliarlo con esattezza, del movimento che avevo fondato per mio diletto anni fa, Situazionismo e Libertà: un podio tricolore, al centro il simbolo del movimento stesso disegnato da Georges Wolinski, un altro amico, dove appare una ragazza che solleva il pugno chiuso e insieme la maglietta per mostrare felicemente il seno e intanto proclama con un fumetto: «Avanti Fulvio!» Secondo me, Bobo, se in questo momento lo chiamiamo laggiù a Pantelleria, dove Filippo potrebbe trovarsi, lui si mette subito al lavoro e davvero realizza in un batter di mani qualcosa di meraviglioso e perfetto per le nostre esigenze. Volendo, potrebbe inserire anche le metope del Tempio C di Selinunte, dove appare la quadriga di Helios. Magari con noi due a guidarla, Fulvio e Bobo, ovviamente in kimono di seta giapponese, lo stesso kimono personalizzato che nel frattempo avremo ricevuto da Jack Lang.
Insomma, lo chiami tu o lo chiamo io, il carissimo Filippo? Fammelo sapere presto perché dobbiamo assolutamente concludere questa nostra storia, sei d’accordo?
Ma alla fine, come lo vogliamo chiamare questo benedetto Chiringuito o Cabane che presto inaugureremo ad Hammamet?
Caro Bobo, non ci crederai, ma ho trovato per puro caso il modo perfetto per definire cos’è mai la nostra gauche caviar, la sinistra al caviale. Sempre noi, come Simon e Garfunkel. O magari, perdona la finezza citazionistica, come Les Pieds Nickelés, i personaggi di un leggendario fumetto francese, il nome sta per «piedi di nickel», espressione dell’argot per indicare gli scansafatiche, in realtà loro sono in tre, Croquignol, Filochard e Ribouldingue, tre fratelli a loro modo anarchici e del tutto insofferenti alle regole e all’autorità; pensandoci bene, tu assomigli in qualche misura a uno di loro, esattamente a Croquignol, lo stesso naso. Proveremo magari a trovare un terzo compagno, strada facendo.
Ascolta, tempo fa, sul sito di un famoso giornale economico, nel titolo di un articolo, l’Etna veniva attribuito a Napoli. A quel punto, qualcuno, persona del tutto priva di estro, ha subito segnalato l’errore, ritenendo inaccettabile quel semplice refuso. Quanto a me, ho pensato invece che proprio quell’errore donasse fantasia al tutto, all’esistenza stessa, di più, mettesse in discussione la banalità del quotidiano, della realtà, dell’esistente. D’altronde, come spiega Rilke nella nona Elegia duinese, mica le cose sanno di chiamarsi come noi pretenderemmo. Leggi cosa dice Rilke, leggi, leggi: «Siamo qui forse per dire: casa, ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutta, finestra; al più colonne, torre… ma per dire, capisci, oh, per dire così, come mai le stesse cose capivano d’essere intimamente».
È vero che Pablo Neruda sosteneva che «in tempo di guerra parlare di alberi è un crimine», riferendosi proprio a lui, a Rilke, ma Neruda era comunista, e non trovava a volte spazio per l’incanto, per il volo.
I Situazionisti, Guy Debord e Raoul Vaneigem, come ben sai, hanno invece immaginato una disciplina ulteriore per la vera comprensione del mondo, cioè la psicogeografia, una scienza poetica che consente di immaginare il mare perfino nell’entroterra, anche a Caltanissetta, a Velletri, a Bruxelles, anche a Costantina, in Algeria.
Immaginare che a Napoli ci sia il Vesuvio, e non invece l’Etna, significa condannarsi all’ordinario stato delle cose. Con gauche caviar si potrà invece sostenere che il Fujiyama si trovi in provincia di Frosinone.
Un abbraccio, caro Bobo, e chissà se gli altri capiranno il nostro solo apparente paradosso, in realtà un sentimento liberatorio, libertario, desiderante, antiproibizionista.
D’altronde, non è forse altrettanto vero che il Socialismo è una forma trascendente della realtà? Si tratta appunto di modificarla, trasformarla, come sta scritto sulla tomba di Karl Marx incontrata all’inizio del nostro viaggio. Si vede che, quando prenderemo finalmente il potere, chiameremo il Vesuvio Etna, e viceversa. La bandiera rossa sventolerà sia sull’uno che sull’altro. Un saluto a pugno chiuso,
lo stesso saluto del Front Populaire francese del 1936, che fece dono a molti cittadini delle ferie pagate, così da vedere per la prima volta le spiagge, il mare.
Post scriptum: hai poi ricevuto il mio progetto delle insegne del Supremo Ordine Cavalleresco di Pierre-Joseph Proudhon, di cui io e te saremo Gran Maestri e insieme i primi baroni? Non puoi immaginare quanti cari amici ambiscano già a quell’onorificenza comprensiva di titolo.
Però, caro Bobo, perdonami; noi, fino a ora, abbiamo fatto solo metafisica, tu hai mostrato la tua sapienza politica, confermando che saresti un ottimo ministro plenipotenziario degli Esteri; quanto a me ho cercato di andare oltre la contingenza spicciola, la piccina cronaca, citando ora Kerenskij, che proprio in questi giorni ci sta tutto, ora il «Gobbo del Quarticciolo», cioè memoria, storia, utopia, incanto e disincanto. Adesso però la questione riguarda cose più pratiche, terra terra, direbbero al bar tabaccheria di circonvallazione Gianicolense, al momento del Gratta e Vinci. Mi assicuri che lì a Tunisi, Hammamet, Cartagine o La Marsa o dove sai tu, hai un omino fidato con cui parlare, tipo un assessore, un compare, giusto per sbloccare al più presto, prima dell’estate prossima, le licenze e i bolli necessari per il nostro esercizio? No, perché se non ce l’hai, tutte le parole sono state inutili. Ora, parlo ovviamente per me, che in questo esatto momento mi sento come Enea Guarnacci, l’impresario fallito di pugilato interpretato da Ugo Tognazzi nel film I mostri, quello della scena con il pugile suonato Artemio Altidori, cioè Vittorio Gassman, che ripete: «So’ contento, so’…» Secondo te, parlo sempre per me, e se tu gli dici che il tuo socio di Roma si sente proprio come Guarnacci, questa benedetta licenza ce la danno davvero? Dimmi qualcosa, rassicurami, parla… Mi puoi rispondere anche su questo stesso pezzetto di carta, non sprecare altre risme.
da “Gauche Caviar. Come salvare il socialismo con l’ironia”, di Fulvio Abbate e Bobo Craxi, Baldini + Castoldi, 2022, pagine 256, euro 18