Fuori dalla bollaIn questa era dell’inconsistenza c’è bisogno di editori liberali

Il mondo della cultura non può arrendersi alle mode passeggere. Le case editrici devono avere figure dotate di razionalismo critico per indirizzarle, edificarle e guidarle. Anche se la tendenza va nella direzione opposta

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Le case editrici sono fatte degli uomini che le ideano, le indirizzano, le impongono – sono gli editori. Un editore ha l’animus del costruttore: ha l’educazione del letterato e umanista aperto alla scienza, una educazione completa e affinata nel tempo: pure tutto questo lievita solo se la pasta è quella del costruttore. Costruire un catalogo editoriale è un’arte affine all’architettura. Un editore ragiona in base a un ordine: e un ordine porta con sé misure e così proporzioni; e quell’ordine è tutto, è l’editore. Gli editor sono gli assistenti di studio a cui è chiesto di sviluppare il catalogo secondo quell’ordine e quelle misure. L’editore è l’architetto.

Succede che in Italia la cultura ha trovato luogo e respiro – il respiro è importante – molto più nelle case editrici che nelle università. (Le ragioni sono evidenti a tutti –be’, quasi – coloro che sono passati dall’università italiana: non vale approfondire, non oggi e non qui). Le case editrici sono state per almeno cent’anni i bastioni della cultura italiana: lì si pubblicavano e si traducevano i testi della Modernità, le nuove edizioni e a volte critiche dei classici della letteratura italiana, europea e atlantica. Tutto questo secondo un disegno e l’ordine che dimorava nella mente degli editori: loro accoglievano i letterati adatti a diventare editor e al meglio.

(Una precisazione: intendo le case editrici di cultura, non le case editrici dette “generaliste”, ossia che pubblicano libri di ogni genere – Mondadori, Rizzoli –, oppure le case editrici che un tempo sono state luoghi dell’editoria di cultura e oggi sono anfibie, buone per la terraferma della letteratura e ottime e ben disposte per i laghi d’inconsistenza della “pura narratività” e della “pura comunicatività”, la post-saggistica – Einaudi, Feltrinelli, Garzanti – ed è un’amarezza).

L’editore è una figura fondamentale della Modernità – come l’industriale: anche lui costruttore e produttore. Non è un caso che siano due figure e due parole divenute desuete, non pertinenti alla Postmodernità: oggi, nell’Età dell’Inconsistenza, si dice imprenditore, vale a dire un mercante di denari e un venditore, non un produttore (quanto al costruttore: per la carità…); e non si dice più editore (intendo per case editrici di notevoli dimensioni): c’è l’amministratore delegato-editore, il perfetto funzionario dell’imprenditore proprietario (a volte ne è l’alias o ne porta il berretto): di nuovo un mercante e un gestore, non un produttore: un funzionario, magari del se stesso imprenditore. Non è un romanzo distopico: è l’Età dell’Inconsistenza. (Una domanda agli interessati: come hanno potuto gli industriali, i produttori a volte costruttori di modernità, accettare di confondersi e sciogliersi nella blesa galassia degli imprenditori? Mi pare di poter dire che è stato non molto onorevole, e miope). Tutto questo ha comportato una perdita secca per la cultura: il venir meno dei bastioni che in Italia sono state le case editrici – e quando dico Italia intendo quel paese europeo di recente costituzione e privo di una vera, per integrità e sostanza, cultura liberale. Le case editrici di cultura non hanno saputo affrontare la sfida posta dalla nuova Età e la sua nube tossica: l’avvento dell’impero della comunicazione,  dapprima con la ondata delle televisioni, commerciali o di stato non cambia molto, poi col dilagare dell’inconsistenza, alimentata dai nuovi trabiccoli elettronici preludio al successivo dilagare dei camping della comunicazione (Facebook, Instagram) a uso del coro dei giubilanti. Le case editrici si sono adeguate e senza esitazioni. Come si è potuti arrivare a una simile débâcle dell’orgoglio e del senso editoriale? La risposta è semplice: sono venuti meno gli editori, i costruttori.

Le case editrici sono l’editore – è una certezza. L’editore è sempre, in ogni scelta: dall’ordine che dispone lo spazio del catalogo agli autori e le opere che ne sono gli elementi strutturali; dalla scelta della grafica di copertina alla gabbia tipografica, dalla scelta del carattere di stampa alle norme redazionali, fino ai particolari minuti.  (Vale per i libri e vale per i bollettini editoriali, per ogni foglio a stampa che circola e esce dalla casa editrice). Indirizza gli editor e il grafico, poi li lascia lavorare in pace. Guai però all’editor o altro che non si ponga in consonanza allo stile dell’editore e così della casa. Il fatto è che sono pochi a poter essere editori.

L’editore ideale e il principe degli editori è stato Giulio Bollati: aveva tutte le doti e  le conoscenze necessarie, e al meglio: era un costruttore e di Modernità. (Di lui, Giulio Bollati, ho scritto nella pagina del Diario lo scorso 14 maggio). Giulio Bollati è morto nel maggio del 1996; Giulio Einaudi è morto nel 1999, lo stesso anno di Mario Spagnol; per Cesare De Michelis l’anno della morte è il 2018; e infine, Roberto Calasso se n’è andato lo scorso anno. Calasso è stato l’ultimo degli editori. (Intendo proprietario in toto o in parte di una casa editrice: e così libero di lavorare). Dopo di lui, il più giovane, nessun editore di grande rilevanza.

Grande rilevanza non significa grande dimensioni: riguarda l’ampiezza dello spazio editoriale, la perspicuità dell’ordine che lo determina, la convenienza dello stile che lo contraddistingue. Ecco un esempio, per capirci: la Marsilio, fondata e diretta da Cesare De Michelis: una casa editrice nata e cresciuta a Venezia. De Michelis, docente di letteratura Italiana all’ateneo di Padova, ha saputo accogliere in casa editrice il meglio della cultura veneta e non solo: ha potuto farlo per aver costruito una casa editrice completa: dai classici della letteratura alla narrativa d’oggi, dalla saggistica contemporanea (filosofia, letteratura, cinema, arti figurative) ai libri illustrati e i cataloghi d’arte. Cesare de Michelis non avrebbe mai rinunciato a una soltanto delle stanze editoriali della Marsilio: non lo ha fatto e gli va reso il merito. Nella splendida collana Letteratura universale, a sua volta divisa in stanze affidate a letterati studiosi della singola letteratura, ha pubblicato libri e traduzioni che sono indispensabili al lettore educato: la traduzione in prosa della Iliade e della Odissea, dono letterario di Maria Grazia Ciani; le Mu’allaqāt, la poesia araba delle origini, a cura di Daniela Amaldi, e Il Corano più antico, le sure più antiche, per la cura di Sergio Noja; le Cinque vite di eremiti di Domenico Cavalca, a cura di Carlo Delcorno, e l’edizione in due volumi di Tutte le poesie di Alessandro Manzoni, a cura di Gilberto Lonardi; Cronaca della luna sul monte, raccolta dei racconti di Nakajima Atsushi, a cura di Giorgio Amitrano, e i Racconti di pioggia e di luna più i Racconti della pioggia di primavera di Ueda Akinari, per le cure di Maria Teresa Orsi; fino al recente Malvina di Maria Wirtemberska, capolavoro della letteratura polacca, a cura di Luigi Marinelli. Lungo sarebbe l’elenco dei saggi notevoli della collana riservata: bastino i nomi di Giacomo Debenedetti e Carlo Diano per la letteratura, di Robert Bresson e François Truffaut per il cinema; e non mancano gli scrittori italiani scoperti e pubblicati da De Michelis, a partire da Susanna Tamaro. Piccola casa editrice, grande catalogo – ecco un vero editore.

(Ho scelto di proposito una casa editrice non celebrata, come per esempio Adelphi: è per lasciar intendere come, al di là della qualità del catalogo, conti molto il respiro dello spazio editoriale, che altro non è che il risultato dell’apertura di pensiero e della cultura dell’editore. Vale dire come questo significhi un impegno intellettuale e materiale notevolissimo: solo chi ha praticato l’attività editoriale può intenderlo in pieno: pure il lettore può riconoscerlo. È l’editoria di cultura).

L’interrogativo è: può un editore lavorare al suo edificio nell’Età dell’Inconsistenza e al tempo dei camping della comunicazione? Certo che può farlo. Bollati, Einaudi e gli altri non hanno avuto modo di dimostrarlo: al contrario Calasso ha avuto modo e il tempo di farlo. La tattica è quella più lontana dalla natura trasformista dell’italiano: ha ignorato i camping, come ha fatto per i campioni della “pura narratività” e il resto. Letteratura amena sì, qual è il problema? “pura narratività” no, mai: non a casa mia. Ha potuto farlo essendo l’editore. Nelle case editrici di cultura rimaste senza editore è stata scelta la strada già intrapresa dai quotidiani e i settimanali: quella più facile: hanno inseguito il nuovo pubblico, quello dei giubilanti dei camping. (Nei giornali è così partita l’acquisizione dei pifferai della Generazione Io, i campioni dei camping: il seguito di giubilanti nei camping è diventato un atout decisivo per una carriera). Le case editrici orfane di editore hanno seguito e di filata. È la via più facile: sono capaci tutti, basta “organizzarsi” (l’odioso imperativo principe degli Anni di Merda); sono contenti tutti: gli imprenditori, che rispettano i moltiplicatori e salvano i fatturati, i funzionari, che salvano il posto di lavoro, sempre a rischio in un settore debole come l’editoria; i pifferai della Generazione Io, che sono entrati nei cataloghi di case editrici che, in presenza di un editore, non avrebbero mai visto se non in fotografia. Vale ripeterlo: è solo una bolla, quella dell’inconsistenza: scoppierà.

La vera domanda è: ha senso, c’è spazio per la figura dell’editore in questa realtà? Certo, e oggi più che mai – e vale anche per l’industriale, il politico, l’uomo comune. A un patto: che si abbia la forza di stare fuori dalla bolla, ignorare i camping, rifiutare l’equivoco della “pura narratività” e la “pura comunicatività”, che non sono altro che narrativa di consumo; infine, che si resti fedeli all’idea della Modernità. L’editore, come tutti i produttori e costruttori, è seguace del razionalismo critico, che è il midollo del pensiero liberale; ha un solo impegno e prima di tutto con se stesso: la critica costante della realtà e il farne un catalogo; e ha un solo ideale, oggi fuori corso: la durata. Lo stesso ideale che muove il letterato, da Goethe a Handke. L’editore è un costruttore e lavora alla durata – il resto non importa. 

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