Cosa succede dopo. È con queste tre parole che si potrebbe riassumere “1945 e altre storie” (edizioni Anfora), raccolta di racconti dello scrittore ungherese Gábor T. Szántó, uno dei maggiori rappresentanti del panorama letterario del suo Paese, con cui esplora gli effetti dei grandi eventi sulle persone comuni: «non gli eroi, e nemmeno i soldati», spiega a Linkiesta, ma tutti quelli che sono stati presi nel mezzo dalla Storia, uscendone sia vittime che carnefici, sia colpevoli che innocenti.
Sono allora gli ebrei che, dopo l’Olocausto, tornano nel villaggio d’origine con un carico misterioso montato sul carro (è il primo racconto, da cui è stato tratto un film del regista ungherese Ferenc Török), ma anche i loro concittadini, spaventati di dover restituire spazi e cose di cui si erano con vigliaccheria impossessati durante la deportazione. Oppure sono gli ex prigionieri dei campi di concentramento, che puntano a ricattare un ex SS. O gli sfollati del centro Europa che devono adeguarsi ai nuovi confini post-bellici, lasciando una casa senza sapere se ne avranno altre. Tutti ritratti, in storie che si dipanano dal termine della Seconda Guerra Mondiale fino ai nostri giorni, perché «per capire quanto i drammi definiscano le persone, bisogna adottare un ampio intervallo di tempo».
L’indagine letteraria di Szántó, spiega, si concentra su vicende marginali, oscure, vissute da gente lontane dai centri decisionali e che subiscono gli eventi. Si basano su spunti reali. «Ho fatto numerose interviste a persone anziane, chiedo loro di raccontarmi i loro ricordi, anche quelli all’apparenza meno importanti. Cerco sempre narrazioni minori, piccole. Punti di vista laterali, svantaggiati – non a caso spesso adotto il punto di vista dei bambini». Un’altra grande fonte di ispirazione è la storia stessa della sua famiglia, scampata alle guerre e alle deportazioni della Seconda Guerra Mondiale e alle difficoltà vissute sotto gli anni del regime comunista in Ungheria.
In questa ricchezza di storie semplici, vissute lungo faglie geografiche, villaggi remoti, città alle prese con l’ansia della ricostruzione (e del silenzio) fino all’atmosfera soffocata del Natale in famiglia, rimane viva una convinzione: «Che la storia non finisce mai». Questo vale per la gente comune e, più ancora, per tutta la società. Quando si è pensato di averla archiviata, l’idea «si è rivelata illusoria ed è stata smentita più volte: prima dagli episodi di terrorismo islamico, dallo scoppio della pandemia e adesso anche dalla guerra in Ucraina». Una guerra che, ricorda, era inaspettata per la maggior parte dei Paesi, tranne quelli vicini alla Russia, che la conoscono bene.
Questo spiega anche la loro paura: «Abbiamo già visto arrivare i carri armati russi. Sappiamo che può succedere ancora e questo ci spaventa». Se è vero che tutte le minoranze hanno diritto a vivere ed essere protette, la difesa della popolazione russofona in Donbass non può essere pretesto per un conflitto. «È una tragedia, è una vergogna totalitaria».
Ma è, appunto, il risultato «di una politica violenta. Che fa uso di strumenti violenti. I politici civilizzati usano strumenti civili». I russi non hanno nemmeno «la possibilità di rendersene conto, sono sotto la pressione di una forte propaganda e in gran parte non hanno accesso a fonti alternative di informazioni. È un mondo che conosco bene, ricalca il passato sovietico del mio Paese, so cosa significa. Quelli che riconosco, adesso, sono i caratteri del pensiero totalitario. La nostalgia per un leader forte, l’odio nei confronti del liberalismo, l’ostilità verso le differenze, il profondo nazionalismo». Sono tutte cose che vanno contrastate, «ma servono idee adeguate e liberali – forse non-ortodosse – ma che sappiano capire le necessità di ogni società e andare incontro al loro bisogno di sicurezza, ma anche integrare gli altri e aprirsi». Serve «un equilibrio», che sappia ridare speranza e opporsi alla retorica del passato.