Fuori rotta Le misure delle multinazionali contro la plastica negli oceani sono (quasi) inutili

Se Coca-Cola, Pepsi, Nestlé, Danone e Keurig Dr Pepper mantenessero i loro attuali impegni ambientali, la plastica nelle acque diminuirebbe solo del 7%. Il motivo? Puntano sul riciclo, e invece dovrebbero incentivare il riutilizzo

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L’epica marinara e piratesca ci ha abituato a declinare al plurale gli oceani, ma nella loro Giornata Mondiale – che si celebra l’8 giugno da ormai 30 anni – può valere la pena ricordare che la mitologia classica richiede il singolare. Oceano ha un pedigree familiare evocativo, figlio di Urano e Gea, del cielo e della terra, e per diritto di nascita fondamentale alla vita sul Pianeta in questa ecologia ante litteram. 

Oggi, la comunità scientifica tende a concordare su quel singolare che trascende le dispute territoriali e la geopolitica: di oceano ne esiste uno solo, interconnesso. Nessun uomo è un’isola, è lo stesso per i mari, e la nostra specie non sta facendo abbastanza per proteggerli. Nel Novecento abbiamo vinto la sfida del catrame, poi li abbiamo inondati di plastica.

È la minaccia più letale alla vita marina, ma non solo. Ogni anno uccide oltre un milione di uccelli e 100mila mammiferi, denuncia l’Unesco. Gli animali che la scambiano per cibo vanno incontro a una morte atroce: per inedia, con lo stomaco pieno di Pet (polietilene tereftalato). Ma il dramma non si esaurisce a questo paradosso sadico, anche se ci sarebbero già elementi a sufficienza per sentirsi coinvolti. Non si tratta più di colpire lettori annoiati con le dimensioni della distesa di immondizia che galleggia in questo momento nel Pacifico. È vasta due volte la Francia. E quando questo materiale si sfrangia, produce le microplastiche, che penetrano in ogni ramificazione della catena alimentare e possono finire nel cibo che consumiamo. 

Il punto è che le contromisure che adottiamo – o, peggio, sbandieriamo – non sono quelle più adatte. Un caso eclatante è ripreso da uno studio commissionato da Oceana, una delle ong più attive per la conservazione degli oceani, uscito a maggio. Si parla di bottigliette di plastica, perché costituiscono la più visibile e più presente (subito dopo i sacchetti) forma di inquinamento in mare. Si stima che ne finisca in acqua un milione al minuto. Ebbene, la ricerca mette in luce come gli obiettivi delle prime cinque ditte di beverage al mondo siano fuori bersaglio: puntano sul riciclo, e invece dovrebbero incentivare il riutilizzo. 

Se queste cinque sorelle (Coca-Cola, Pepsi, Nestlé, Danone e Keurig Dr Pepper) mantenessero i loro attuali impegni ambientali, la plastica in mare diminuirebbe solo del 7%. Quel «solo» non dev’essere fuorviante: i programmi green vanno lodati, a maggior ragione quando sono i giganti a provare a ridurre il loro impatto climatico ridisegnando le forniture e gli impianti. Le critiche sono sulla ricetta: si potrebbe fare di meglio. Oceana sostiene che aumentare del 10% il riutilizzo delle bottiglie nei Paesi costieri potrebbe abbattere i riversamenti del 22%. 

Spiegato in una riga, il problema è questo: può venire riciclata solo la plastica che non finisce in mare, ma in molte Nazioni, soprattutto in via di sviluppo, sono carenti le infrastrutture e la raccolta differenziata è inesistente. Nel breve termine, quindi, secondo la ong è importante arrestare il fenomeno uno step prima. Come? Concentrandoci sull’evitare che le bottiglie arrivino nell’oceano già saturo e pure coinvolgendo le aziende più piccole, responsabilizzandole come – giustamente – chiediamo ai colossi.   

«Aumentare il riciclo non impedisce alla plastica mono-uso di raggiungere il mare, ma può farlo sostituirla con una bottiglia che verrà riutilizzata» ha detto Dana Miller, la direttrice delle Strategic initiatives di Oceana. Vista da un’altra prospettiva: purtroppo, in molti posti del mondo, può venire riciclata solo la plastica raccolta correttamente, cioè una minoranza, già sottratta al mare. Dove cadono 35,8 miliardi di bottiglie di Pet sui 511 miliardi consumati nel 2018 in 93 Stati. Una parte di significativa di quelle che non avvelenano l’acqua viene bruciata o tombata in discariche abusive. È nato, non a caso, un osservatorio che mappa con dati satellitari questi siti illegali. 

Oceana chiede quindi di introdurre una «refillable option». Funziona così: i recipienti sono di proprietà dell’azienda, che li traccia e raccoglie. Chi compra una bottiglia riutilizzabile, in cambio di uno sconto o un incentivo economico, la riporta al negozio, dove viene pulita e riempita nuovamente. Il ciclo di vita si allunga a 20 utilizzi se è fatta di Pet, a più di 50 nel caso del vetro. Sarebbe una soluzione d’emergenza, in attesa di migliorare o costruire una vera e propria raccolta differenziata nei Paesi in via di sviluppo. 

Altre ipotesi, al momento, sono ancora futuribili, dalle imbarcazioni in grado di trasformare la plastica in combustibile ai batteri capaci di degradarla. Quella biologica è una delle ipotesi più suggestive, perché le isole di plastica sono diventate un ecosistema artificiale tutto da studiare. Viene chiamata «plastisfera». È popolata da batteri e altri microrganismi, come i minuscoli neuston, censiti in un articolo sul New York Times che vale la pena sfogliare. Una grossa domanda a cui rispondere è se la plastisfera possa diventare un incubatore di nuovi agenti patogeni. 

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