La strada è lunga e tortuosa, ma almeno il primo passo è stato fatto. Il Parlamento europeo ha ufficialmente richiesto una convenzione per modificare i trattati su cui si basa l’Unione europea. Dovrà essere composta da rappresentanti dei parlamenti nazionali, dei capi di Stato o di governo degli Stati membri, del Parlamento e della Commissione. Ma il potere di convocarla o meno spetta al Consiglio europeo, che lo farà solo con l’approvazione di più della metà dei suoi membri.
Motivi per cambiare
La risoluzione è stata approvata a larga maggioranza: 355 voti a favore, 154 contro e 48 astenuti. Praticamente si sono schierati per la convenzione i quattro gruppi politici più numerosi dell’emiciclo: Partito popolare europeo, Socialisti e democratici, Renew Europe e Verdi/Ale, più parte della Sinistra. Contrarie soltanto le due formazioni di destra radicale: Conservatori e riformisti europei, di cui fa parte Fratelli d’Italia, e Identità e democrazia, che annovera la Lega fra i suoi componenti.
I deputati favorevoli hanno elencato diversi motivi per cui sarebbe necessario procedere a una riforma dell’architettura comunitaria. Il più citato è sicuramente l’abolizione del «diritto di veto», che scaturisce dalla regola di voto all’unanimità nelle tematiche economiche e di politica estera.
«Quello che è accaduto con l’Ungheria all’ultimo Consiglio europeo non deve più succedere in futuro», ha detto la socialista tedesca Gabriele Bischoff, in riferimento all’estenuante trattativa sull’embargo al petrolio russo, in cui il Primo minsitro ungherese Viktor Orbàn ha strappato l’esenzione delle importazioni via terra.
L’episodio è stato ricordato anche dall’esponente verde Daniel Freund, che ha contestato un metodo decisionale pensato inizialmente per difendere le minoranze, e oggi trasformatosi in uno «strumento di estorsione». Poi un paio di esempi pratici, rivolti ai governi di Paesi poco inclini ad abolire l’unanimità. «La Lettonia può accettare che qualcuno metta il veto alle sanzioni sulla Russia, sua ingombrante vicina? E alla Danimarca va bene che un Paese molto piccolo blocchi l’adozione di una tassa comunitaria?».
In diversi hanno sottolineato la necessità di processi decisionali più rapidi per affrontare le sfide di un contesto internazionale molto diverso da quello che ha generato le regole attuali, tra i problemi provocati dal cambiamento climatico, la pandemia da Covid-19 e la guerra in Ucraina. «Che vi piaccia o no, è un mondo di imperi», ha affermato il deputato belga Guy Verhofstadt, ripetendo uno dei suoi refrain preferiti e paragonando la velocità degli Stati Uniti nell’approvare il loro embargo alle fonti energetiche russe con i tre mesi di discussioni dell’Unione, che hanno prodotto alla fine un divieto di importazione incompleto.
Per queste ragioni, la risoluzione adottata propone una riforma della procedura di voto, dall’unanimità alla maggioranza qualificata, in alcuni ambiti, come le sanzioni a Paesi terzi e le situazioni di emergenza.
Tra le altre richieste ci sono un adattamento delle competenze europee nei settori sanitario, energetico, della difesa e delle politiche sociali; il diritto di iniziativa legislativa per il Parlamento europeo e un rafforzamento delle procedure che tutelano i valori dell’Unione.
Una passerella per riformare i trattati
Se il Parlamento europeo è compatto nella richiesta, gli Stati europei non sembrano così pronti a riceverla. Per la convocazione serve la maggioranza semplice: più stati favorevoli di quelli contrari, come prevede la procedura dell’Articolo 48 del Trattato sull’Ue.
Ma la strada è tutta in salita: 13 Paesi su 27 hanno già espresso il loro scetticismo in una dichiarazione congiunta resa pubblica lo scorso 9 maggio, con cui si oppongono a «sconsiderati e prematuri tentativi di attivare un processo di modifica dei trattati». I governi firmatari sono Bulgaria, Croazia, Cechia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Romania, Slovenia e Svezia. A conti fatti, tutto il Nord e tutto l’Est dell’Unione europea, ad eccezione dell’Ungheria, che però è notoriamente poco incline a privarsi del suo potere di veto.
La speranza è che il governo francese, giunto all’ultimo miglio del suo semestre di presidenza, riesca quantomeno a imporre la discussione. La questione sarà trattata al Consiglio dei ministri degli Affari europei il 21 giugno e gli europarlamentari confidano nel fatto che possa arrivare sul tavolo dei Capi di Stato e di governo pochi giorni dopo, nel Consiglio europeo del 23 e 24 giugno.
In questo senso, forse non è di buon auspicio la sedia vuota del Segretario di Stato francese agli affari europei Clément Beaune, arrivato in notevole ritardo al dibattito per un problema del suo treno. «Questa immagine ci dimostra l’impegno del Consiglio sul tema», ha ironizzato il popolare portoghese Paulo Rangel, fervente sostenitore della riforma dei trattati e del diritto di iniziativa legislativa per l’Eurocamera.
Dopo essersi scusato per l’inconveniente, Beaune ha comunque messo in chiaro che il tema sta a cuore al suo governo, pur con tutte le cautele del caso. «Siamo aperti a una evoluzione verso un maggiore utilizzo della maggioranza qualificata. È un argomento molto delicato in seno al Consiglio, ma la nostra posizione è chiara». Al fianco della Francia dovrebbero schierarsi gli altri grandi Paesi dell’Unione.
La convocazione di una convenzione europea, tuttavia, non è che l’inizio di un lungo processo: per portare a termine qualunque modifica, infatti, è necessario l’accordo unanime degli Stati membri. Un obiettivo ancora più difficile da raggiungere.
«Le resistenze nella modifica dei trattati arriveranno soprattutto da Ungheria e Polonia, ma anche dai Paesi Bassi e da altri membri “frugali” sul superamento delle politiche fiscali», dice a Linkiesta Fabio Massimo Castaldo, eurodeputato del Movimento Cinque Stelle e noto conoscitore delle dinamiche comunitarie. A suo giudizio, è necessario un «piano B» che preveda una cooperazione rafforzata tra i Paesi pronti ad aumentare l’integrazione europea, qualora «alcuni Stati tentino di sabotare il processo di ratifica».
Come suggerito nel dibattito in plenaria, ci sarebbe la possibilità della «clausola passerella», una procedura di revisione semplificata che consente di adottare modifiche ai trattati con voto a maggioranza qualificata (il 55% degli Stati membri con almeno il 65% della popolazione). Il problema è che per attivare la passerella, al momento, è necessario il consenso di tutti i capi di Stato e di governo dell’Unione.
Il Parlamento vorrebbe cambiare pure questo sistema, rendendolo attivabile con un voto a maggioranza qualificata. Per approvare la modifica, però, resta necessario il via libera di tutti i 27 Stati europei. E anche in questo caso si torna al punto di partenza: per abolire o sospendere l’unanimità, in Europa, serve l’unanimità.