La storia truccataMartelli, Renzi e la temperie giudiziaria che ha isolato Falcone

Nel libro “Vita e persecuzione di Giovanni Falcone“, presentato al Parenti insieme con il leader di Italia Viva, l‘ex Guardasigilli che aveva portato al Ministero il magistrato antimafia riflette sulla strage di Capaci e sulle lunghe conseguenze politiche di quella stagione

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Parlare di Giovanni Falcone fa sempre effetto, nonostante ricorra ormai il trentesimo anniversario dalla sua uccisione. E fa effetto anche che a parlarne sia proprio Claudio Martelli – che nel 1992, l’anno dell’attentato, era ministro della Giustizia, per dimettersi poi sotto l‘inchiesta di Mani pulite – con il libro “Vita e persecuzione di Giovanni Falcone”, uscito per La nave di Teseo il 23 maggio.

A presentarlo al Teatro Parenti di Milano è l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, per il quale Martelli in passato non ha avuto esattamente parole elogiative. Ma i tempi cambiano, soprattutto questi tempi, che il leader di Italia Viva definisce subito «difficilissimi». In una fase politica come quella attuale, dove si discute di cambiare il sistema giudiziario e la democrazia sembra in crisi a ogni latitudine del mondo, esaminare ancora la sorte toccata a Giovanni Falcone, a sua moglie Francesca Morvillo e a Paolo Borsellino, oltre che alle loro scorte, è un modo per ridefinire ancora un‘idea giusta di giustizia, e della storia.

In questo caso, il libro di Claudio Martelli, ricorda che la storia può anche essere truccata. Se così fosse, saremmo tutti vittime e complici inconsapevoli di un‘illusione collettiva, ed è la storia stessa ad insegnarci che non è insolito che capiti.

«Dopo aver letto questo libro, vi renderete conto che il racconto di questi ultimi trent‘anni in merito alla vicenda Falcone è semplicemente falso», dice Renzi.

Tutto parte dalla parola “persecuzione“. La persecuzione di Giovanni Falcone è stata spesso presentata come il tormento di un uomo lasciato solo dallo Stato, la cui morte sarebbe stata fissata e addirittura ordinata da mandanti interni alla politica, invischiata e avviluppata nei rapporti con la mafia. Martelli rovescia questa narrazione. Secondo la sua ricostruzione, Falcone è stato mandato a morire dalla magistratura, dunque dai suoi stessi compagni, dai suoi stessi colleghi.

Falcone si distingue perché per la prima volta riesce a mandare a processo i vertici di Cosa Nostra e 475 gregari – i cosiddetti “soldati” delle organizzazioni mafiose – all‘interno del maxiprocesso iniziato a Palermo nel 1986. Nessuno aveva mai assistito a una cosa simile, in Italia e nel mondo. Dimostra che la mafia è attaccabile, e non solo, persino condannabile. Sgancia un primo colpo volto a indebolire un sistema che prima pareva granitico.

I suoi colleghi magistrati reagiscono impedendo che diventi ufficialmente capo di fatto dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, mediante la nomina di un altro magistrato, Antonino Meli, apparentemente per diritto di anzianità. Ma il primo atto significativo di Meli, non appena insediato, è la demolizione del pool antimafia con il formale e sostanziale ridimensionamento di Giovanni Falcone.

La grande intuizione di Falcone è stata comprendere che la mafia negli anni Ottanta non era certo un‘accozzaglia di malviventi occasionali e banditi, ma rappresentava un gigantesco problema. Ha avuto il merito di scoprire che la Sicilia era il luogo nevralgico di questi traffici, a causa della sua posizione geografica privilegiata, a metà tra le rotte per il Medioriente da cui si importava l‘oppio, il quale poi veniva raffinato a Trapani ed esportato in un secondo momento sotto forma di eroina negli Stati Uniti e nell‘America del Sud. Ma anche a causa della presenza della consorella di Cosa Nostra sul suolo statunitense, esplosa con l‘emigrazione del secondo dopoguerra.

Estradato dall‘incarico, l‘Ufficio istruzione piomba nell‘inefficienza. La Corte di Cassazione, interpellata da Falcone, risponde appoggiando Meli. Si regredisce, si torna allo stato di cose precedente al maxiprocesso, per il quale la mafia non era affatto un sistema gerarchico, militarizzato, potente, ma un nugolo di banditi locali.

Perché questa urgenza di depotenziare Falcone, le sue illuminazioni, i suoi metodi di indagine, e non da ultimi, i suoi rapporti con l‘FBI americana, che erano valsi il sequestro di tonnellate di stupefacenti?

Si dice che dopo l‘episodio al Consiglio superiore della magistratura, Vito D‘Ambrosio, consigliere e amico di Falcone, gli telefona per comunicargli l‘esito del voto e tenta di rincuorarlo: «La prossima volta andrà meglio». Falcone gli risponde: «Non ci sarà una prossima volta». Con il nuovo codice di procedura penale, l‘Ufficio di istruzione sarebbe scomparso del tutto. A Falcone non pare dunque un caso che il suo sollevamento sia avvenuto proprio durante questa fase cruciale, così da dare modo ai magistrati di affrettarsi a chiudere, a sigillare le più importanti indagini sulla mafia e sulle sue relazioni occulte.

«Mi avete crocefisso», dice a D‘Ambrosio. «Mi avete inchiodato come bersaglio».

Secondo Martelli, questo è il primo atto della “persecuzione“.

Dopodiché, una seconda testimonianza viene rilevata dalle parole a Fernanda Contri, altro membro del Consiglio Superiore della Magistratura: «Avete capito che mi avete consegnato alla mafia? Ora possono eseguire senza problemi la sentenza di morte già decretata da tempo, perché hanno avuto la dimostrazione che non mi vogliono neanche i miei colleghi, cioè i magistrati».

«C‘è stata la saldatura», confiderà poi un anno dopo a Francesco La Licata dopo l‘attentato sventato a L‘Addaura.

Senza dubbio Falcone è stato ucciso dalla mafia. Ma le condizioni in cui la mafia lo trovò, indebolito, abbandonato in seguito a un lungo calvario, concorsero all‘omicidio. E secondo Martelli i magistrati di questo sono responsabili, del tutto o in parte, come responsabile è la corruzione di uno Stato che invece si dichiarava democratico e irreprensibile.

Non è un caso che diciannove giorni dopo il fallito attentato, Falcone, nel corso di un‘intervista al giornalista dell‘Unità Saverio Lodato, dichiarò sibillino: «Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime».

Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Antimafia, riporta anche quanto circolava nei giorni successivi negli ambienti della DC e del PCI e nei salotti palermitani, tra i seguaci di Leoluca Orlando: secondo loro, quello dell‘Addaura lo aveva preparato Falcone stesso come un falso attentato.

Comunque siano andate veramente le cose, rimane un‘evidenza: quel che è accaduto trent‘anni fa racchiude in germe ciò che capita oggi alla politica e alla magistratura italiana.

Lo ricorda bene Matteo Renzi: «Il populismo di certi giudizi mediatici, di certe campagne, impedisce di riflettere sulle questioni veramente importanti. La giustizia è una di queste. Solo se funziona, si onora davvero la memoria dei servitori dello Stato».

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