Siamo a metà marzo 2020, in pieno lockdown. È ora di cena e sembra già notte fonda, stiamo camminando per le vie del nostro quartiere per portare fuori il cane o andare a fare la spesa: le uniche “valvole di sfogo” di quelle giornate surreali, monotone, nervose. A un certo punto arriviamo di fianco al palazzo che ospita uno dei musei della città, e notiamo con stupore una luce accesa nell’oscurità.
È molto probabile che dall’altra parte del vetro ci fosse un restauratore, un esperto di diagnostica artistica (alle prese con i suoi raggi x) o storico dell’arte specializzato in conservazione. Insomma, uno di quei professionisti fondamentali il cui lavoro – invisibile al pubblico ma a dir poco essenziale – non si è mai realmente fermato. Gli unici che, per mesi, hanno frequentato i musei. Perché il ciclo di vita naturale delle opere d’arte non segue il susseguirsi dei decreti.
I settori culturali e creativi sono stati tra i più colpiti dalle restrizioni dovute alla pandemia. Come si legge in un report dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Oecd), circa il 90% (circa 85.000 istituzioni) dei musei al mondo è rimasto chiuso temporaneamente durante le fasi acute dell’emergenza sanitaria, che hanno messo a dura prova la sostenibilità finanziaria di queste strutture. L’Istat ha annunciato che nel 2020 gli utenti dei musei (e di istituti simili) – sia pubblici sia privati – sono stati solo 36 milioni: il 76% rispetto al 2019.
Le conseguenze, ovviamente, hanno toccato anche l’ambito occupazionale: stando a un’indagine dell’International council of museums (Icom), il contratto del 6% del personale temporaneo dei musei non è stato rinnovato o è stato rescisso, e il 16,1% dei professionisti freelance dei musei è stato licenziato.
In quella situazione di incertezza e difficoltà, gli specialisti dell’arte della conservazione hanno continuato a lavorare senza sosta, con uno sguardo sempre proiettato verso un futuro – che oggi possiamo finalmente chiamare “presente” – attesissimo: il momento delle riaperture.
È dedicata proprio a loro la mostra fotografica “Guardiani della bellezza”, che fino al 18 settembre 2022 racconterà il dietro le quinte della conservazione artistica nelle sale vuote e deserte delle restrizioni anti-covid, senza i passi, le voci e gli sguardi dei visitatori. Gli scatti sono a cura di Silvano Pupella, specializzato in fotografia industriale e fotografia aziendale, che ha deciso di valorizzare l’operato di professionisti di cui si parla troppo poco. Le fotografie sono esposte nella Palazzina di Caccia di Stupinigi, a poco più di 10 chilometri dal centro di Torino.
«Con “Guardiani della bellezza” vogliamo creare consapevolezza e coinvolgere il territorio sul tema cruciale della prevenzione del patrimonio culturale. Dal lavoro sul campo svolto non solo nelle Residenze Sabaude, ma anche in numerose dimore storiche italiane e edifici di culto, dove operiamo con programmi di conservazione preventiva e programmata, è maturata la necessità di comunicare questo settore strategico spesso invisibile e silenzioso», racconta Stefano Trucco, presidente del Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale, che ha organizzato la mostra fotografica assieme alla Fondazione Ordine Mauriziano, la Fondazione CRT e con l’aiuto della Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per la Città metropolitana di Torino, della Fondazione Compagnia di San Paolo e del Consorzio Residenze Reali Sabaude.
Le immagini dei restauratori in azione nelle sale vuote trasmettono un paradossale senso di tranquillità, dovuto probabilmente al quasi romantico “a tu per tu” tra il professionista e l’opera di cui si sta occupando. Momenti di pace ben rappresentati nelle fotografie della mostra, che vede il coinvolgimento diretto di esperti della conservazione e dei servizi educativi del CCR e della Palazzina. Non mancano, inoltre, attività complementari e laboratori didattici dedicati all’educazione alla conservazione, con l’obiettivo di promuoverla soprattutto tra i ragazzi e le ragazze più giovani.