Marco Ambrosino in questi dieci anni ha fatto una cosa semplice: è salito su un’imbarcazione, si è posizionato al centro del Mediterraneo, e da lì ha studiato i Paesi bagnati dal “mare nostrum”. Non è più la singola nazione che si affaccia sul mare: se ne appropria, la personalizza e la rende un orizzonte nazionale. Il mare diventa soggetto, si fa carico di storie e identità multiculturali, che attraversa e rende superflui confini e divisioni. Cambia il punto di vista che dal mare guarda alla costa e non viceversa, perché basta un cambio di prospettiva per costruire qualcosa di nuovo.
Ambrosino non è il “classico” chef visionario che potremmo immaginarci alla guida di un bistrot contemporaneo di successo. Nato a Procida nel 1984, inizia la sua avventura in cucina come lavapiatti nei ristoranti dell’isola, per poi approdare al ristorante Il Melograno di Ischia a 22 anni. Nel 2012 il Noma di Copenaghen lo invita a bordo per esplorare il Mare del Nord, dove coltiva il suo rapporto con la materia prima e la ristorazione. Sbarca quindi a Milano, e dopo due anni nel pastificio Buongusto, giunge al 28 Posti, dove sviluppa con grande umiltà e integrità la sua idea di cucina. Un pezzo di cuore rimane sempre ancorato all’isola natia, e Chiajozza è il piatto simbolo di questo sentimento profondo: la canocchia cruda, il riccio di mare, il cavolo cappuccio e l’olio al pino marittimo ci guidano all’unisono, come il canto delle sirene, alla baia simbolo delle sue origini, e passepartout del Mediterraneo.
Ambrosino è un cantastorie politicamente impegnato che usa il mondo della cucina e del cibo per promuovere la salvaguardia dei mari e del suolo, la pesca etica, i produttori, gli allevamenti e l’agricoltura sostenibile. Questo è il Manifesto del Collettivo Mediterraneo, coraggioso progetto editoriale nato nel 2019 dal “bisogno” di (ri)costruire una memoria del Mediterraneo, creando una rete di persone che abbiano realmente a cuore i fondamenti del Manifesto.
«Il mondo della ristorazione continua a lanciare messaggi stupidi: sostenibilità non vuol dire non buttare la parte verde del porro, per poi metterla in un sacchetto (di plastica) per il sottovuoto, cuocerla a bassa temperatura tenendo acceso un roner per dodici ore, conservarla in un contenitore di cui ho perso il tappo e che quindi dovrò coprire con la pellicola e infine dimenticarla in fondo al ripiano del frigo». Contribuire allo sviluppo sostenibile del nostro Paese significa «creare un legame tra produttori, trasformatori, venditori, e non ultimo il pubblico acquirente», i co-produttori, come li definisce Carlo Petrini, fondatore di Slow Food.
Oggi, dopo dieci anni, non è un ripensamento quello di lasciare Milano, «è solo un pensamento» come ci ripete al tavolo. Pensare e cambiare rotta non rinnega nessuno dei percorsi già attraversati, ne cerca semplicemente di nuovi. La scelta di Napoli come porto di imbarco per un nuovo progetto gastronomico non è un ritorno al passato. Marco, come ha sempre fatto, va incontro al suo futuro con le idee più chiare che mai, per plasmare quella “cucina di prossimità reale” che tanto ha a cuore.
Non è un addio, è un arrivederci. Magari a Chiajozza.