Berreste mai un drink che ha come ingredienti un mix di batteri e lieviti? Eppure è proprio la presenza di una coltura simbiotica di microrganismi (Scoby, acronimo di Symbiotic Culture of Bacteria and Yeast) a rendere il kombucha qualcosa di più rispetto a un semplice tè zuccherato: una bevanda fermentata originaria dell’Asia e dalle caratteristiche particolari, parente di birra, vino, kvas e tepache, che vanta molte proprietà benefiche per l’organismo.
È infatti ricca di antiossidanti, polifenoli e vitamine del gruppo B, aiuta a depurare il sangue e il fegato, nutre la flora intestinale e rafforza il sistema immunitario, svolge un’azione antibatterica, antiossidante ed energizzante, con in più il pregio di essere buona e versatile da bere (e forse anche per questo, alcuni sostengono addirittura che migliori l’umore!). Appunto tutto merito dello Scoby, che ancora molti si ostinano a chiamare erroneamente “fungo” perchè si presenta come una massa dall’aspetto gelatinoso.
Duemila anni di storia e non sentirli
Il kombucha ha una lunga tradizione alle spalle: in Oriente viene bevuto da più di duemila anni, almeno da quando Qin Chi Huangdi, il primo imperatore della Cina unificata dal 247 al 221 a.C, commissionò a un alchimista la creazione di una bevanda che lo rendesse immortale. Un’altra leggenda vuole che l’ideatore sia stato un medico coreano, noto come Dr.Kombu, che già nel V secolo a.C, avrebbe creato la portentosa bevanda a partire dal tè (in cinese cha, da cui il nome Kombu-cha) per guarire l’imperatore giapponese ormai prossimo alla morte.
Risalendo ancora più indietro nel tempo, si può credere che i primi a utilizzare il tè fermentato siano stati i samurai giapponesi, nel X secolo a.C. Nonostante questa longevità, il successo del kombucha, non dà segni di cedimento.
Alla conquista dell’Occidente
Oggi la tradizione del kombucha prosegue in Occidente, dove si sta diffondendo in diverse nazioni: dagli Stati Uniti all’Inghilterra, fino all’Italia e al resto d’Europa. Merito dei suoi effetti salutari, certo, ma anche del fascino legato al suo processo produttivo (detto batch), dell’alchimia che trasforma una materia prima a base di tè dolce (tè verde, tè nero, tè bianco e persino mate o caffè) in qualcosa di completamente diverso.
Infatti il kombucha non ha il sapore delle materie prime da cui proviene, ma si caratterizza per un gusto frizzantino, piacevole e rinfrescante, leggermente acidulo, che nella versione non aromatizzata, ricorda il sidro di mele o il prosecco (talvolta persino lo Champagne), ma che può variare molto in base alla durata della fermentazione, all’aggiunta di spezie, frutta, estratti aromatici, e all’inserimento di eventuali lieviti per birra e vini frizzanti.
Il laboratorio nel bicchiere
Il merito delle particolari caratteristiche che il kombucha può assumere (sia dal punto di vista organolettico sia per quanto riguarda le proprietà salutari) è da attribuire ai microrganismi vivi che, una volta aggiunti al tè zuccherato (ma freddo), insieme alla rimanenza di un batch precedente che faccia da “attivatore”, danno il via alla fermentazione, cioè digeriscono i tannini naturalmente presenti nelle foglie del tè e lo zucchero aggiunto, producendo come “scarto” anidride carbonica e alcol. L’aspetto interessante è che questo processo può essere controllato e indirizzato, in modo da ottenere una bevanda con un sapore e un aroma diversi, più o meno frizzante e persino con un tasso di gradazione alcolica variabile.
A ciascuno il suo drink su misura
Il kombucha “tradizionale” si ottiene in 1-2 settimane di fermentazione a temperatura ambiente (ma in estate possono bastare anche soli 5 giorni): il risultato è una bevanda in cui la concentrazione di zucchero risulta ridotta al 4% circa, con una percentuale minima di anidride carbonica e un contenuto alcolico piuttosto basso (1,2% vol).
Ma nulla vieta di proseguire con una seconda e persino con una terza fermentazione per abbattere ulteriormente la quantità di zucchero, accentuare la frizzantezza e far aumentare la gradazione alcolica, portandola al di sopra del 4% vol e, nel caso del cosiddetto hard kombucha, anche fino al 10% vol.
Ovviamente, una volta ottenuta e imbottigliata la bevanda, gli Scoby non vanno buttati! Una volta filtrati vanno messi a riposo nelle Scoby hotel e conservati in vista di un nuovo batch.
L’ora del tè diventa divertente
Versatile e particolare per il suo gusto acidulo, buono da solo e ideale come ingrediente per cocktail innovativi, in versione classica o aromatizzata, il kombucha ha sicuramente cambiato il modo in cui gli occidentali sono stati abituati a pensare al tè: una bevanda anacronistica e un po’ triste, servita in tazzine di porcellana tra convenevoli adatti ai salotti ottocenteschi.
Superato ogni pregiudizio, oggi il tè fermentato fa proseliti soprattutto tra i giovani, attirando l’attenzione dei consumatori disposti a lasciarsi sorprendere da una bevanda sempre diversa e stimolando un numero crescente di mixologist e bartender a cimentarsi nel ruolo di kombucha brewer. Nascono così nuove sperimentazioni che combinano spezie e botaniche (yerba mate, boccioli di rosa, zenzero disidratato, moringa, ecc) e accostamenti coraggiosi con succhi ed estratti, ma anche con distillati e liquori da sempre protagonisti della miscelazione più classica.
Alchimisti contemporanei armati di strainer, spoon e muddler
Per quanto recente sia la tradizione del kombucha in Occidente, e ancor più in Italia, non mancano esempi di intraprendenza nostrana che hanno saputo valorizzare questa bevanda al punto di avviare una piccola rivoluzione nel modo di bere nazionale.
Il primo kombucha bar in Italia è stato quello di Mattia Baroni, aperto nel 2018 all’interno del ristorante Castel Flavon di Bolzano, dove oltre alla drink list sperimentale battezzata “Vivo”, il culto della fermentazione emerge anche nella carta dei vini, la cui proposta viene estesa a una selezione di bevande sane a base di kombucha, completa di suggerimenti necessari per abbinarle ai piatti del menù (anch’esso molto “fermentato”) EatAlive.
A Roma, invece, nel 2020 Michele Garofalo ha dato vita a Latta, l’evoluzione di un modern pub pensato come un laboratorio e un vero e proprio tempio dei fermentati (kombucha incluso), tutti rigorosamente autoprodotti e pensati come chiave di lettura per una rivisitazione dei drink classici: da quelli spillati al momento a quelli in lattina, fino a quelli miscelati al bicchiere. Infine Gabriele Bianchi, sommelier livornese classe 1995, direttore di sala di Essenziale a Firenze e autore del libro “Cacio pepe e kombucha”, è stato consacrato dalla rivista Forbes come uno dei cinque nomi più influenti del food italiano proprio per lo spirito innovativo con cui abbina questa e altre bevande dalla storia millenaria sia con i piatti più tipici della tradizione italiana, sia con quelli gourmet della cucina contemporanea più creativa.
Si può anche fare anche a casa (ma con cautela)
Oggi chiunque può autoprodursi il proprio kombucha. Online e in alcuni negozi specializzati si trovano infatti kombucha kit (come quelli di Roy kombucha e Fervere), che mettono a disposizione dei neofiti home brewer.
I blog di esperti spiegano passo passo come procedere per ottenere il risultato migliore, senza correre rischi legati a eventuali esplosioni di barattoli e bottiglie o alla proliferazione incontrollata di batteri dannosi che possono attaccare la coltura Scoby.
Tra questi spicca Fermentalista gestito da Flavio Sacco, biologo e ricercatore universitario promotore dei benefici dei microbi e autore di libri e corsi sulla fermentazione (anche fai-da-te).
La magia formato prêt-à-porter
Dato il crescente successo globale della bevanda, sono sempre di più le aziende che la producono artigianalmente e la rendono disponibile in versione ready to drink in bottiglia o in lattina. Per esempio, la già citata Fervere, da giugno 2020 è presente anche nei punti vendita Eataly di Firenze, Roma, Milano, Trieste e Torino, in due ricette speciali: Kombucha Ginger Noir (tè nero nepalese lavorato a mano e zenzero disidratato) e Kombucha Wild Spring (tè nero, lamponi, fragole, more, mela, pera, fiordaliso, calendula, petali di rosa, camomilla, karkadè).
Wilden Herbals, specializzata nelle bevande a base di erbe e presente anche alla 15°edizione di Pitti Taste, propone la sua linea di kombucha Frècc in diversi pacchetti degustazione in lattina.
Infine, new entry del settore, c’è MIA kombucha, nata dall’idea di 5 giovani “under 35” e dalla fusione di due produzioni artigianali lombarde (MIA, di Varese, e Revolucha Kombucha nel comasco), oggi può produrre fino a 10.000 litri al mese, e propone 4 varianti di kombucha in lattina attraverso un canale e-commerce, che si aggiunge ai più di 100 rivenditori tra bar e ristoranti in tutta Italia. Attraverso una campagna Crowdfunding sulla piattaforma Mamacrowd partita lo scorso 30 giugno, MIA si candida a diventare il primo brand di kombucha in Italia e a cambiare definitivamente il mercato dei soft drink in chiave inclusiva e salutare.
Insomma, che si opti per l’auto-produzione o per la versione take away, oppure che si scelga di gustarlo in un cocktail o abbinata alle pietanze di una cena, il kombucha può davvero rappresentare il futuro del “bere all’italiana”. Le uniche condizioni da rispettare sono: aprire la mente, non far esplodere niente e smetterla di chiamare “fungo” il povero Scoby!