Le culture genialiIl futuro dei classici, tra asterischi, nuove narrazioni e tradizione

Il mondo degli studi umanistici è diventato il campo di battaglia per lotte a favore della de-colonizzazione e inclusività. Queste teorie che reinterpretano le opere del passato puntano a costruire nuove fondamenta ma non è detto che ne mantengano la vitalità

di Juliet Furst, da Unsplash

Il classico non passa mai di moda. Tranne negli Stati Uniti, dove è in atto da anni la rivisitazione dell’antico nel mondo accademico. L’ultima iniziativa è quella della Saint Mary’s University, in Minnesota: oltre 5mila iscritti divisi tra i campus di Winona, Minneapolis e Rochester dal prossimo anno dovranno dire addio agli studenti delle facoltà umanistiche visto che il rettore, il prete cattolico James Burn, licenzierà 13 insegnanti a seguito della soppressione di undici programmi accademici, fra cui musica, storia e – paradosso per un ateneo retto da un prete cattolico – teologia: «L’istituto sta rispondendo ai bisogni degli studenti e della società» ha dichiarato Burn che – nomen omen – secondo gli studenti starebbe, così, mandando in fumo il futuro della ricerca umanistica dell’ateneo.

Non si tratta di un caso isolato, e sarebbe riduttivo etichettarlo come tentativo di cancel culture. Il fenomeno, al contrario, tiene banco nelle università americane. Storico dell’antica Roma con background migratorio, un master a Oxford e un dottorato alla Stanford University, Padilla-Peralta è tra i principali sostenitori di alto livello accademico di una sostanziale revisione dell’insegnamento dei classici. La sua visione dell’antico non è un processo di cambiamento circoscritto entro le mura accademiche, perché riguarda un processo di consapevolezza personale a visione sociale dell’antichità.

Scrive Rachel Poser, che ha intervistato il professore sul New York Times: «Padilla sentiva che la sua ricerca sui classici aveva rimpiazzato altri aspetti della sua identità, tanto quanto la “civiltà occidentale” aveva sostituito altre culture e forme di conoscenza […]: “Ho dovuto impegnarmi attivamente a decolonizzare la mia mente”» ha spiegato il docente. La decolonizzazione in ambito accademico è un importante processo di ri-significazione: ma ha senso trasporla in modo retroattivo su ambiti come gli studi classici? Che ne è di Frederick Douglass, il pioniere dei diritti civili degli afroamericani, che confessò di essersi emancipato leggendo Socrate e Cicerone di nascosto, nelle pause di lavoro come schiavo? Per non parlare dell’eredità classica riconosciuta da Martin Luther King Jr., che menzionò tre volte Socrate nella famosa Lettera dal carcere di Birmingham (1963).

Per di più, l’approccio di Peralta non convince neppure alcuni suoi colleghi. Un accademico della Princeton, Denis Feeney ha ammesso: «Alcuni laureandi mi confessano di vergognarsi di dire ai loro amici che studiano i classici. Credo sia molto triste». Il timore è che quest’atteggiamento acceleri la caduta libera delle iscrizioni in atenei fondamentalmente umanistici, innescato dalla pandemia. L’effetto Covid sulle università statunitensi è evidente negli ultimi dati: con 662mila iscritti in meno ai corsi di laurea nella primavera del 2022, nel giro di un anno le iscrizioni universitarie sono diminuite del 4,7 per cento.

Quando un anno fa la Howard University, fiore all’occhiello della formazione accademica degli afroamericani, ha deciso di sciogliere il suo dipartimento di studi classici, dalle colonne del Washington Post, Cornel West, docente di filosofia alla Harvard University, ha parlato di «catastrofe spirituale»: «Il nostro impegno con i classici, quindi con il nostro patrimonio di civiltà, è il mezzo che abbiamo per trovare una nostra voce. Solo così possiamo diventare spiritualmente liberi e moralmente grandi» ha dichiarato.

Andrea Marcolongo, grecista e autrice di libri di successo come La lingua geniale: il greco e La lezione di Enea, ha seguito da vicino il caso americano: «Conosco abbastanza bene il dibattito, l’ho vissuto in prima persona partecipando a una conferenza alla Columbia University di New York: rimasi scioccata dal modo in cui il classico veniva contestato» ammette. Oggi Marcolongo vive a Parigi, dove gli effetti della mancanza dei classici nel dibattito pubblico, insieme a un disinteresse generale della società, sta avendo i suoi effetti: all’ultima prova di maturità, su oltre 380mila candidati, solo 535 hanno portato latino e 237 greco, ma non per mancanza di un background umanistico: solo il 3% di chi ha frequentato il liceo ha scelto il latino.

Commentando queste cifre, Marcolongo ha scritto un editoriale su Le Figaro, che suona come un’infausta profezia: «Piuttosto che parlare di crisi del classico, io parlerei di catastrofe. Se la tendenza non sarà invertita, fra qualche anno non ci saranno allievi che porteranno greco alla maturità» ammette. Per lei, autrice bestseller che accende i giovani con i classici – il suo libro d’esordio, La lingua geniale, è stato tradotto in 28 paesi – il problema non sta, però, nei giovani: «Le scelte dei ragazzi di oggi riflettono la società in cui vivono, una società in cui viene sempre più ripetuto che greco e latino sono lingue morte, inutili, che non servono a trovare lavoro. Io contesto l’idea dell’utilità applicata alla cultura: la parola servire si applica ai servi, non ai cittadini liberi. È la prospettiva del dibattito a dover essere invertita: non si va a scuola per trovare un lavoro, ma per formarsi come esseri umani. Non credo che i ragazzi siano clienti a cui vendere il greco e il latino».

La vede diversamente Anna Finozzi, dottoranda di letteratura italiana presso la Stockholm University, che fra le sue ricerche si occupa della cosiddetta “notte coloniale”, cioè della memoria perduta di pagine importanti e drammatiche della storia colonialista della Repubblica italiana: «La ri-narrazione del colonialismo italiano è un ottimo esempio di un processo di revisione profonda: la Storia come ci viene raccontata e come viene imparata a scuola è una delle narrazioni possibili, spesso fallace e viziata. Oggi si parla piuttosto di narrazioni al plurale, come insieme di voci, di memorie plurime e situate che servono a ripensare il modo in cui abbiamo, come società occidentale e patriarcale soprattutto, costruito la conoscenza».

Per Finozzi, quindi, «anche l’antichità classica, come altre discipline umanistiche e non, va sottoposta a una revisione profonda. Questo processo è già iniziato su vari fronti, come dimostrano, per esempio, i numerosi studi sugli archivi e sui gruppi che ne sono stati esclusi (schiav*, donne)». In un esteso commento al saggio dell’accademica e attivista afroamericana bell hooks Insegnare a trasgredire: l’educazione come pratica di libertà, Finozzi ricorda perché una revisione critica della storia sia un atto fondamentalmente pedagogico: «La storia, così rivisitata, ha un ruolo fondamentale nella società e nella scuola. Chiedendosi perché alcuni fatti sono stati raccontati, selezionati, da chi e perché, aiuta a ripensare ai criteri di ammissione che hanno permesso a quei fatti di dare forma alla memoria collettiva, che altro non è che la nostra identità (nazionale, europea, occidentale). Un esempio è la storia delle donne: è chiaro che riscrivere la Storia da una prospettiva femminista ci invita sia a sovvertire lo sguardo oppressore dell’uomo (bianco, cis, occidentale, colonialista) sia a riflettere sul perché questo sia accaduto per secoli e in che modo possiamo cambiare lo stato delle cose. In questo senso credo molto nelle potenzialità che la storia, o le storie, potrebbe fornire se ri-raccontata da chi ne è stat* esclus*».

La tendenza di cercare narrative di liberazione nasce dalla scelta di «storicizzare la storia». Si tratta di un’espressione utilizzata dal professore Tomaso Montanari quando, plaudendo alla vernice lanciata in segno di protesta dagli studenti del Laboratorio Universitario Metropolitano sulla statua di Indro Montanelli per aver preso come “consorte” una dodicenne eritrea negli anni 1935-1936, lo definì come un buon modo di «storicizzare il monumento e la figura di Montanelli». Come il caso del giornalista è stato un tentativo di ri-significazione dello spazio pubblico, per taluni accademici il mutamento del classico è un tentativo di ri-significazione di un tempo universalmente accettato come cifra culturale delle società occidentali. Un antico fluido, dove istanze contemporanee possono ancorarsi a paradigmi antichi nella realizzazione di un nuovo dna del Classico.

Nella cultura pop, è l’operazione compiuta dalla cantante Lizzo, che nel video di Rumors ri-semantizza uno scenario classico attraverso i concetti di femminismo (la cosiddetta sorority), liberazione sessuale, body positivity. Continua Anna Finozzi: «Per quanto riguarda l’Antichità, non c’è abbastanza criticità rispetto, ad esempio, al fatto che il canone sia bianco e maschio, cosa che l* student* notano e reclamano. Queste questioni, cioè problematizzare e, talvolta, distruggere i sistemi di conoscenza che perpetuano il razzismo sistemico, l’oppressione di classe, la discriminazione di genere, sono molto sentite dall* giovan*. Forse perché viviamo in una realtà ormai palesemente in rovina: dal cambiamento climatico alla crisi ecologica, alla soppressione dei diritti (si pensi all’aborto), al divario tra nord e sud globale.

A questo si può aggiungere la velocità con cui si trasmettono le informazioni e la democraticità, almeno nel nostro lato del pianeta, di dare un’opinione, di creare associazioni, di unirsi a manifestare. Il 2020, con la propagazione del Black Lives Matter anche in Europa e in Italia, ha avuto un’influenza enorme sulle persone e sull* giovan*, che hanno attivato una velocissima rete di solidarietà, di scambio, di protesta sui social e nelle piazze, chiedendo una Storia diversa con l’eliminazione di alcune festività che celebrano il dominio razziale, abbattendo le statue dei colonizzatori e destabilizzando i canoni culturali».

Silvia Romani insegna Mitologia, religioni del mondo classico e antropologia classica all’Università Statale di Milano e nei suoi saggi divulgativi dedicati all’Antico – l’ultimo per Einaudi: Saffo, la ragazza di Lesbo – individua quegli elementi in costante dialogo con l’uomo contemporaneo: «La divulgazione, che è un processo di ricerca matto e disperatissimo, è una grande opportunità sia per tenere vivi testi, autori e contesti, sia per instaurare una buona pratica di comunicazione e dialogo in cui l’Antico continua a sollecitarci, ma non ci appiattisce in stereotipi ed etichette».

Per Romani, negli atenei statunitensi sta prendendo forma un approccio pericoloso, perché non storicistico: «Di solito la cultura americana nei classici è molto forte sul dibattito teorico, ma fatica a collocare nella loro profondità autori, fenomeni, e dimentica il contesto. Cancellare Ovidio, Omero, in un contesto americano non è così bizzarro, perché sono letti come fenomeni disancorati dal contesto, ma nella nostra tradizione europea questa cosa non trova posto: è impossibile per noi immaginare Ovidio senza il milieu in cui Ovidio è nato e ha creato, scritto, composto. Lo trovo pericoloso e quello che mi sorprende che una tradizione come la nostra, molto consolidata dal punto di vista della profondità dei fenomeni culturali, filosofici, sociali, subisca la fascinazione di un mondo che, seppure muscolare nella prossemica della didattica delle lingue classiche, di fatto è sempre un po’ appiattito, che non distingue contesti da contenuti» ammette.

Sia Marcolongo che Romani, entrambe lette da pubblico di lettori giovani, sono però consapevoli che un’inversione di tendenza è solo possibile dentro il mondo accademico: «C’è anche una istanza etica in tutto ciò: abbiamo studiato e veniamo pagati anche per studiare. Ma non è più il tempo in cui in Italia c’erano frotte di grecisti provenienti da famiglie spesso aristocratiche. Adesso è il tempo che noi intellettuali diamo il nostro contributo alla società civile» spiega Romani. Le fa eco Marcolongo: «Oggi più che mai, in un mondo sempre più culturale, il classico offre una base comune che non minaccia nessuno, perché è una base senza bandiere. Gli antichi non esistono più, ma la loro società era fondata sulla cultura: un territorio mitico franco che, come tale, appartiene a tutti d’integrarsi anche oggi».

Francesco Caruso, Jacopo Khalil, Marta Marucci e Vanessa Pallagrossi fanno parte dell’associazione culturale Glaucopis, fondata da studenti e ricercatori dell’Università di Roma La Sapienza per la divulgazione di contenuti classici e l’organizzazione di seminari e giornate di ricerca. Nell’ateneo, fiore all’occhiello degli studi classici in Italia, il dibattito sul classico sta facendo capolino ora. L’annuale ciclo di seminari di letteratura greca “Luigi Enrico Rossi”, per esempio, quest’anno ha avuto come titolo tematico Classics: cancel? Eppure, puntualizza Caruso: «Tra noi dottorandi e ricercatori se ne parla su gruppi Telegram e Whatsapp, ci si scambia opinioni su casi internazionali, manca un tono nazionale del dibattito». Khalil spiega: «Il tema in Italia attecchisce di meno, perché c’è una tendenza a contestualizzare molto i fenomeni e gli eventi. Queste istanze vanno prese sul serio perché vengono da chi ha subito determinati fenomeni storici. Ma va data una risposta, è facile puntare il dito sui classici: perché non rivedere anche gli studi economici, per esempio?».

Marucci e Pallagrossi portano la loro esperienza di insegnanti: «Quando i dipartimenti arrivano a pensare di cancellare, diventa un problema. A scuola, con gli studenti, avverto la necessità di contestualizzare piuttosto che attualizzare» spiega Pallagrossi, che dal 2020 insegna in un liceo classico. Le fa eco Marucci, anche lei insegnante liceale: «Con gli studenti insegniamo a comprendere l’antico e riflettere, perché possiamo leggere un giambo misogino senza per questo esserlo».

Per Caruso, dottorando in filosofia antica, il classico non va attualizzato ma compreso: «Lo studio del greco e del latino serve a rendersi conto che questi temi sono sempre esistiti nella nostra cultura, perché il patriarcato esiste e perché veniamo da società patriarcali. Se noi togliamo questo perché vediamo nelle società qualcosa di brutto, non riusciamo a capire neppure quello che di brutto c’è nel presente. Viene meno una chiave di lettura sui problemi del presente, eppure tocca accollarsi gli aspetti negativi della nostra storia». Khalil, ricercatore di filologia, aggiunge: «Così facendo si perde la vitalità del classico, che non ti insegna a leggere in Aristotele la giustificazione dello schiavismo, bensì a farne una lettura critica. Se noi abbandoniamo gli studi storici e la lettura critica, facciamo un favore ai tentativi di estremizzazione. Dobbiamo, invece, ricordare che, se riusciamo a concepire un determinato pensiero, se oggi possiamo avere queer studies e post-colonial studies nei nostri atenei, lo dobbiamo agli antichi».

È ormai chiaro che, con accenti diversi, mai come in questi ultimi anni i classici siano diventati terreno di scontro fra due prospettive diverse di società, visto che tanto il classico quanto il futuro hanno in comune un elemento: saranno sempre attuali. In fondo, come spiega lo storico Paolo Colombo nel podcast Disco and Pride (Sole 24 Ore): «La storia non è tanto faccenda di vecchi saggi e incanutiti che spiegano ai giovani il senso del passato. La storia è anche, e forse soprattutto, quella cosa, alimentata dalla curiosità dei giovani, che si fanno domande, che i vecchi ignorano, su argomenti che ai vecchi non interessano, e non vengono neppure in mente».

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