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I trend del mercato Grandi dimissioni e quiet quitting, perché un lavoratore su tre è pronto a lasciare la propria azienda

La ricerca “Global Workforce of the Future” del Gruppo Adecco mette in evidenza come lo stipendio sia solo uno dei fattori che spinge a cambiare lavoro. Contano anche le opportunità di carriera, il benessere e la formazione. Così le aziende possono attrarre e trattenere i talenti

(Unsplash)

Smart working, grandi dimissioni, quiet quitting. Il mercato del lavoro è attraversato da grandi fenomeni di cambiamento, accelerati dall’esperienza della pandemia. Tanto che quasi un lavoratore su tre desidera cambiare lavoro entro un anno. Generando, spesso, una sorta di effetto domino innescato dai cosiddetti “quitfluencer”: sette lavoratori su dieci ammettono infatti che vedere i colleghi abbandonare l’azienda li spinge a prendere in considerazione l’idea di fare lo stesso.

Questi sono alcuni dei grandi trend illustrati nella ricerca “Global Workforce of the Future” realizzata dal Gruppo Adecco, che mette in evidenza quanto i modelli organizzativi aziendali debbano sempre di più adattarsi a fenomeni del tutto nuovi e in continua evoluzione.

I dati parlano chiaro: salario, progressioni di carriera e ricerca di maggiore benessere spingono a cambiare lavoro. A livello globale oltre un quarto (27%) dei lavoratori cercherà di cambiare azienda nei prossimi 12 mesi.

Lo stipendio rappresenta la causa principale di questo fenomeno. In Italia, il 61% dei dipendenti ritiene che il proprio salario non sia sufficiente per affrontare l’aumento dei prezzi dettato dall’inflazione. Una situazione comune in tutto il mondo, che comporta, in diversi casi, il ricorso a pagamenti in nero (35%), la ricerca di un secondo lavoro (51%) o di un nuovo lavoro che garantisca uno stipendio più alto (49%). Del 27% di tutti i lavoratori che stanno pianificando di lasciare il lavoro nei prossimi 12 mesi, quasi la metà (45%) sta già cercando attivamente un’altra occupazione.

Ma lo stipendio non è tutto. Per trattenere i talenti nel 2023 e oltre, le aziende devono mettere al centro le persone e garantire regimi di lavoro flessibili, spiega la ricerca, offrendo ai lavoratori un equilibrio più sano tra lavoro e vita privata. I dipendenti italiani, in particolare, sono propensi a rimanere in azienda quando si sentono soddisfatti del proprio lavoro (40%), percepiscono una certa stabilità (38%) o un buon equilibrio tra vita lavorativa e privata (35%). A svolgere un ruolo cruciale nella ricerca di un nuovo lavoro è proprio la richiesta di maggiore benessere: il 75% degli intervistati predilige datori di lavoro interessati a questo aspetto.

Tra chi prevede di mantenere il proprio impiego, quasi la metà lo farebbe a patto di ottenere una progressione di carriera. Ma il 23% non ha mai ottenuto un confronto su questo tema con il proprio datore di lavoro.

Ed ecco quindi che scatta la voglia di cambiare ufficio. E vedere un collega andare via spinge anche gli altri a considerare l’opzione. Sono quelli che nella ricerca vengono chiamati “quitfluencer”, gli influencer delle dimissioni. Più di due terzi dei lavoratori (70%) prendono in considerazione l’idea di licenziarsi se vedono altri farlo. Questo “effetto domino” colpisce soprattutto i giovani, che hanno il 25% di probabilità in più di essere influenzati dai colleghi in tal senso.

Alle aziende il compito di concentrarsi quindi sulla capacità di trattenere i propri dipendenti e collaboratori. Di fronte a questa situazione di forte instabilità, investire in iniziative di formazione e avviare percorsi di upskilling e reskilling diventa importante per incrementare la competitività delle aziende sul mercato e, al contempo, favorire la crescita professionale dei dipendenti, contenendo così il tasso di dimissioni.

Lo stesso impegno servirà anche a contrastare il fenomeno del “quiet quitting”, le cosiddette “dimissioni silenziose”, che comportano il fare il minimo indispensabile sul posto di lavoro lasciando maggiore spazio alla vita privata. Un’espressione diventata virale sui social network che indica però anche il distacco mentale ed emotivo dal proprio lavoro. E che rischia di alimentare una cultura tossica in cui i lavoratori, sentendo di non potersi esprimere liberamente, scelgono di non impegnarsi. Alle aziende resta l’onere di prestare attenzione a questa tendenza, creando una cultura basata sulla fiducia, sul dialogo e sulla cura della salute mentale, fornendo spazi e strumenti adeguati per sentirsi realmente ascoltati e coinvolti.

«Le aziende devono rivedere le proprie priorità in termini di un maggiore impegno nei confronti delle persone, non affidandosi esclusivamente allo strumento degli aumenti salariali: l’incremento dello stipendio rimane senza dubbio un elemento trainante, ma va affiancato a iniziative concrete per la tutela del benessere della persona», spiega Andrea Malacrida, Country Manager di The Adecco Group Italia. «Le imprese devono investire per migliorare l’equilibrio tra lavoro e vita privata e portare avanti confronti costruttivi con i propri dipendenti, riconoscendone il talento e premiandolo. Al contempo, è fondamentale portare avanti percorsi di formazione, di upskilling e reskilling, per garantire continuità alla carriera professionale di ciascuno e ridare al lavoro uno scopo chiaro e condiviso».

La necessità di incentivare questi sistemi di formazione e aggiornamento professionale nel nostro Paese è resa ancora più evidente dal fatto che, rispetto al 61% della media globale, solo il 46% della forza lavoro ritiene di essere in grado di trovare un nuovo impiego nell’arco di sei mesi. L’Italia è penultima in questa statistica, molto lontana anche dagli altri Paesi europei: in Germania la quota è del 70%, in Spagna del 55% e in Francia del 53%.

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