La popolazione mondiale ha raggiunto gli otto miliardi, e le previsioni delle Nazioni unite dicono che l’anno prossimo l’India sarà il Paese con il più alto numero di abitanti, superando una Cina alle prese con la crisi demografica. Da una grande potenza deriverebbero grandi responsabilità climatiche e ambientali – specie se si parla del terzo maggiore emettitore di gas serra del pianeta -, eppure il primo ministro, Narendra Modi, non ha partecipato alla Cop27 di Sharm el-Sheikh. Un’assenza politica, la sua, che racconta il rifiuto di una Nazione vasta, numerosa, in via di sviluppo ma ancora povera di sobbarcarsi il costo iniziale della transizione ecologica.
La spesa per la ristrutturazione del sistema energetico, che passa per l’accantonamento delle fonti fossili e l’installazione di capacità rinnovabile, potrebbe infatti rallentare la crescita del Paese asiatico. E Nuova Delhi non vuole ostacoli sul suo percorso verso una maggiore prosperità: «L’India deve pagare per una crisi che non ha causato con dei soldi che non ha», ha lamentato un delegato indiano alla Conferenza delle Nazioni unite sul clima.
Il ministro del Carbone, Pralhad Joshi, ha detto chiaramente che «non ci sarà nessuna transizione dal carbone nel futuro prossimo» dell’India. E che il combustibile fossile più inquinante di tutti, di cui il Paese è il secondo maggiore consumatore del pianeta, continuerà a svolgere un ruolo cruciale almeno fino al 2040. Il 2050, soli dieci anni dopo, è la data ultima fissata dalle economie avanzate per il raggiungimento della “neutralità carbonica”, ossia l’azzeramento netto delle emissioni. Senza il contributo indiano, l’azione globale per il clima potrebbe fallire: l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura media della Terra entro gli 1,5°C è forse già irrealizzabile, e da Sharm trapelano voci su un abbandono definitivo di questo target dell’accordo di Parigi (ora siamo a 1,2°C).
Ma assegnare all’India il ruolo di “villain” climatica sarebbe sbagliato. Nonostante le contraddizioni, Nuova Delhi non ha voltato le spalle alla transizione ecologica, in cui anzi vede un’opportunità di ricchezza economica e di influenza politica: chiede però gradualità di adattamento e sostegno monetario da parte dei Paesi ricchi. La data ultima del governo Modi per il “net zero” è il 2070, vent’anni dopo l’Europa: un obiettivo non così utopico.
Proprio alla Cop27 è stato presentato il documento strategico – ufficialmente definito “Long-term low emission development strategy” – che illustra la via indiana alla decarbonizzazione, molto concentrato sulle rinnovabili (in particolare sul solare fotovoltaico), sull’idrogeno verde (l’India punta a diventare un hub globale), sulle auto elettriche, sui biocarburanti (l’etanolo, innanzitutto) e sulle tecnologie di cattura della CO2. Nel piano presentato alla Cop figura anche l’obiettivo di triplicare l’energia prodotta dalle centrali nucleari entro il 2032.
Quello delle “e-car” e della mobilità è un punto di particolare attenzione, considerando che – stando a uno studio dell’Energy policy institute dell’Università di Chicago – l’area settentrionale del Paese ha livelli di inquinamento dieci volte maggiori rispetto a qualsiasi altra parte del mondo. Solo nel 2020, l’esposizione allo smog ha causato circa cinquantaquattromila morti premature nella sola capitale. E secondo Save the children – che ha parlato di «aria tossica» – l’inquinamento atmosferico provoca quasi un decesso su dieci nei bambini indiani sotto i cinque anni. Quella della decarbonizzazione dei trasporti è una delle sfide più complesse, anche e soprattutto per un Paese come l’India.
Cambiando argomento, fonti dell’agenzia Reuters dicono che Nuova Delhi vorrebbe un accordo tra i Paesi partecipanti alla Cop27 per la dismissione di tutti i combustibili fossili, e non del solo carbone come stabilito alla conferenza di Glasgow. Si tratta di una (significativa) mossa difensiva: equiparando carbone, petrolio e gas, l’India – che dipende dal primo per i tre quarti dell’elettricità che genera – intende mettersi sullo stesso piano degli altri governi e ridurre così le critiche sui propri livelli di emissioni.
Emissioni che, considerata la composizione del mix energetico, sembrano destinate a salire: l’aumento della popolazione e del Pil (per il 2022 si stima un aumento del sette per cento) si tradurranno infatti in un aumento della domanda elettrica, a meno che l’India non riesca nella difficile impresa di conciliare crescita economica e riduzione dei consumi privati. Eugenie Dugoua, professoressa di Economia ambientale alla London School of Economics, ha spiegato alla Bbc che modificare le abitudini di vita quotidiana è «necessario e importante», ma i decisori politici dovrebbero piuttosto «concentrarsi sui cambiamenti strutturali», anche per evitare di scaricare tutte le responsabilità sui singoli cittadini. Un ragionamento che riguarda tutto il mondo.
Il primo settore a dover cambiare sarà quello energetico, da cui proviene la maggior parte delle emissioni di CO2 dell’India. Modi, in carica dal 2014, ha promesso di portare la generazione da fonti non-fossili a cinquecento gigawatt entro il 2030: significa non soltanto triplicare il valore di partenza (centocinquanta gigawatt), ma anche e soprattutto aggiungere una capacità superiore a quella attuale (quattrocento gigawatt totali, sia fossili sia rinnovabili) in nemmeno otto anni. Uno sforzo titanico, che secondo BloombergNEF richiederà un investimento da cinquecento miliardi di dollari. La rete di distribuzione dell’elettricità, poi, oggi malmessa, dovrà aggiornarsi ed espandersi per collegare i nuovi parchi eolici e fotovoltaici.
L’Economist ricorda come l’India sia riuscita ad aumentare di cinquanta volte la propria capacità solare dal 2012 al 2021: alla fine dell’anno scorso ammontava a quasi cinquanta gigawatt. e nella prima metà del 2022 se ne sono aggiunti altri 7,4. Dovrà fare più di così, tuttavia, se vorrà raggiungere i target imposti da Modi.
I colossi industriali indiani, come il conglomerato petrolchimico Reliance di Mukesh Ambani e l’Adani group di Gautam Adani, sono (sulla carta) allineati agli obiettivi governativi e hanno annunciato grossi investimenti nelle energie pulite. Reliance, ad esempio, ha stanziato oltre ottanta miliardi in dieci-quindici anni, che confluiranno in buona parte nella costruzione di impianti solari e di macchinari per produrre l’idrogeno verde, su cui l’India – come già detto – punta molto. Adani Group spenderà invece settanta miliardi entro il 2030, soprattutto in capacità solare.
Il clima soleggiato e il basso costo del lavoro garantiscono all’India la possibilità di produrre enormi quantità di elettricità dal fotovoltaico a tariffe economiche. Oltre al taglio dei gas serra e al miglioramento della qualità dell’aria, la disponibilità interna di energia rinnovabile permetterà a Nuova Delhi sia di ridurre gli acquisti di combustibili fossili (una spesa oggi superiore al quattro per cento del Pil), sia di vendere il proprio surplus nel resto dell’Asia. Da importatore di petrolio e carbone, la transizione ecologica potrebbe trasformare l’India in un “elettro-stato”, cioè in un fornitore di elettricità a zero emissioni sul mercato internazionale.