Adesso che il mondiale più anomalo della storia è finito si può provare a fare qualche considerazione sul football come «prosecuzione della politica con altri mezzi». In un recente suo libro “Le guerre del pallone”, Marco Bellinazzo, giornalista profondo conoscitore della finanza calcistica, racconta in modo assai efficace il «conflitto delle governance» che attraversa quella che pomposamente viene definita la «football industry» e che nella sostanza è un conglomerato di marchi sportivi (le franchigie) il cui fatturato d’insieme ha raggiunto una cifra stratosferica superiore ai duecento miliardi di dollari.
Le guerre sono interne ai vertici delle organizzazioni di diritto privato che governano le massime competizioni calcistiche (Fifa e Uefa, società private di diritto svizzero) o che ambirebbero a farlo (la ventilata Superlega); ma anche esterne, con il coinvolgimento di ricchissimi fondi d’investimento asiatici e statunitensi dietro i quali si possono intravedere interessi anche geopolitici.
Basti pensare alla penetrazione dei fondi sovrani arabi nel calcio mondiale che hanno dispiegato grandi capacità economiche sia nell’acquisto di club europei come Psg, Newcastle, Manchester City che nell’organizzazione dell’ultimo mondiale e all’arrivo sulla scena di fondi e franchigie statunitensi alcune delle quali pronte a rilevare ed estromettere presenze invadenti e scomode come quelle cinesi (vedi Elliott con il Milan) e russe (la vendita del Chelsea al gruppo Clearlake da parte di Abramovič, assai vicino a Putin).
In questo scenario forse anche le disavventure giudiziario-sportive del più prestigioso club della provinciale realtà calcistica italiana meriterebbero una qualche migliore riflessione delle banali dispute tifose, cui peraltro volentieri si abbandona anche la stampa “specializzata” (sic) italiana.
Lungi dall’immaginare un qualche legame tra indagini penali e il fallito «golpe di aprile» della Superlega (troppo banale), l’offensiva giudiziaria e sportiva che investe la Juventus può essere l’occasione piuttosto per chiedersi se le strutture delle istituzioni calcistiche nostrane siano adeguate allo scenario che si profila e che solo alcuni attenti osservatori sanno descrivere.
Sarebbe troppo semplice ridurre la storia degli ultimi anni della governance juventina a una farsa degna del Totò della “Banda degli onesti” con le plusvalenze al posto delle banconote false (o per restare a realtà più prossime alla vicenda dei titoli di credito fasulli del caso Parmalat).
La realtà è più complessa e racconta, come spiega Bellinazzo, del tentativo non certo velleitario della Juventus di affrontare un progetto di crescita e sviluppo sportivo ed economico di un club italiano alle prese con lo strapotere delle più ricche franchigie internazionali e di come la catastrofe sanitaria e finanziaria lo abbia bruscamente reciso.
Fatte salve le responsabilità personali e la eventuale configurazione di reati, ciò che dovrebbe preoccupare l’osservatore equilibrato è la corretta valutazione dei fatti e il rischio di una ventata giustizialista capace solo di lasciare macerie.
In questa ottica va allora detto che l’iniziativa della procura federale di richiedere la «revocazione» della sentenza di assoluzione della Juventus emessa ad aprire dalla Corte di Appello federale nella sua massima composizione a sezioni unite non può che suscitare perplessità sotto il profilo giuridico.
Innanzitutto è proprio la procedura scelta a sollevare dubbi: la revocazione di una sentenza di assoluzione è un istituto a carattere eccezionale, ignoto all’ordinamento ordinario se non in casi del tutto particolari, che tocca un principio giuridicamente delicatissimo come quello del «ne bis in idem», recepito non solo dalla Costituzione ma anche da tutte le convenzioni internazionali come una delle più pregnanti espressioni della tutela dei diritti basilari.
Non si può processare per lo stesso fatto chi è stato già assolto con pronuncia definitiva, essendo l’unica eccezione prevista dalle leggi quella a favore solo di chi sia stato ingiustamente condannato ed è un principio valido per le pronunce di ogni tipo e sede, varato per singolare coincidenza dalla Corte europea dei diritti umani proprio in un caso che riguardava nei primi anni 2000 la Exxor, allora cassaforte di famiglia degli Agnelli prima di divenire la holding transnazionale odierna del gruppo (Grande Stevens vs Italia).
È ben chiaro il concetto di «autonomia dell’ordinamento sportivo» legato alla specificità dell’attività agonistica e alla tutela integrale dei valori di correttezza e lealtà sportiva come cristallizzato nelle leggi 280/2003 e nel Codice sportivo varato nel 2019, nonché ribadito sotto diverso profilo dalla stessa Consulta nella sentenza 160/2019.
Proprio in tale occasione però la Corte costituzionale, intervenendo sulla pretesa di alcuni associati di chiedere un risarcimento al giudice ordinario per una sanzione ingiustamente inflitta in sede disciplinare ha ribadito che l’autonomia di un ordinamento come quello sportivo non può ledere in via assoluta i diritti fondamentali dei cittadini a qualunque titolo destinatari delle norme proprie dei singoli ordinamenti. Analogamente il Codice di Giustizia Sportiva prevede che «il processo sportivo attua i principi del diritto di difesa, della parità delle parti, del contraddittorio e gli altri principi del giusto processo».
Dunque il diritto di difesa e il principio di stretta legalità (articolo 24 e 25 della Costituzione) vanno integralmente rispettati anche dalle giurisdizioni autonome di settore. Se è così non è sufficiente esibire come nuove prove le intercettazioni telefoniche della procura di Torino e la delibera di ottobre della Consob sulle correzioni di bilancio del club.
La sentenza emessa ad aprile dalle sezioni unite della Corte di appello federale pronunciandosi sulla dibattuta questione delle plusvalenze (che è quella per cui la procura chiede un nuovo processo) aveva certamente ritenuto criticabili e sospette le prassi delle cosiddette «transazioni a specchio» per cui due società si scambiano giocatori con valori da loro predeterminati ed esito «a somma zero», ma si era fermata di fronte al muro della mancanza nel Codice sportivo di una norma di riferimento che sanzionasse questa specifica tipologia di accordo («mancanza di criteri definiti all’interno dell’ordinamento federale»).
Come scrive la Corte «il pieno rispetto della ripartizione di funzioni – anche all’interno dell’ordinamento federale – non consente al giudice sportivo di sostituirsi al legislatore. Questa constatazione, unitamente alle dimensioni del fenomeno che – beninteso – sono state chiaramente avvertite, impongono l’adozione di un intervento normativo urgente al momento mancante.
L’intervento della Consob ha fornito un nuovo criterio di interpretazione certamente valido (considerare le «operazioni a specchio» come un unico atto di permuta sicché le parti iscrivano a bilancio solo l’esito complessivo finale e dunque una compravendita a somma zero che non consenta di iscrivere alcuna attività nel bilancio) ma che non ha valore normativo e che in ogni caso come linea guida di riferimento, secondo il rispetto del principio di legalità può valere per il futuro non certo per il passato dove come si è visto non esistevano parametri di riferimento.
Se anche si volesse riconoscere la presunta «valenza confessoria» (che peraltro dovrebbe stabilire il giudice penale) di una intercettazione essa non sposterebbe i termini della questione: l’insussistenza di un reato. Non del giudice c’è bisogno, ma del legislatore che vari una norma apposita nel rispetto dei valori costituzionali.
Si farebbe un grave torto a un raffinato giurista come il procuratore federale se si ipotizzasse che egli non avesse chiara questa situazione: può darsi che egli si sia mosso spinto dalla comprensibile urgenza di porre rimedio a una nociva prassi diffusa, ma qui sta il rischio di una giustizia sommaria e inadeguata a un fenomeno come quello calcistico di dimensioni enormi e transnazionali che non può fare a meno del rispetto dei diritti fondamentali: pena la sua implosione.
È infatti ipotizzabile che in caso di sanzioni i difensori (non c’è solo la Juventus alla sbarra ma anche altre società) ricorrano al Tar e sollevino una nuova questione di legittimità costituzionale sulla revocazione cui la Consulta potrebbe non essere insensibile stavolta. Il fatto è che nel diritto come per i rigori il reato c’è quando il legislatore fischia: lo chiamano principio di legalità.