Sono ossessionata dai figli dei giganti. Essi sono una discreta consolazione per noialtri che abbiamo avuto genitori mediamente di merda: poteva andarci peggio, i nostri erano disastrosi coi figli ma almeno mediocri nella vita; pensa essere figli di uno che non solo è uno schifo di genitore, ma è pure un Nobel, un idolo delle folle, un colosso nel suo settore. Pensa essere Rebecca Miller, o Martin Amis, o Jakob Dylan.
Emanuele Salce, in questo senso, è perfettissimo oggetto di studio: figlio di Luciano Salce, quindi già caricato dalla genetica d’un padre ingombrante, da piccolissimo si ritrova a vivere col nuovo marito della madre. Vittorio Gassman, l’antonomasia dell’ingombro. Da grande, tutti ti domandano dei tuoi padri: un amico mi ha raccontato che ogni volta che incontra Emanuele gli chiede di rifare dialoghi di “Brancaleone” o dei “Soliti ignoti”; io non ho mai osato, ma vorrei moltissimo: ha lo stesso identico timbro, è impossibile non pensarci.
(Emanuele dice che non c’è stato un momento in cui s’è reso conto d’avere la voce di Vittorio, «pensavo si parlasse così», ma chiunque lo senta in scena per la prima volta s’impressiona: com’è che in certi momenti sembra proprio Gassman, questo tizio che non gli somiglia per niente, che non ha il suo dna. Compiendo una delle mie attività preferite – rileggermi – ho visto che per lo spettacolo precedente avevo deciso si trattasse di dna culturale anche se non biologico: sono d’accordo con me stessa, meno male).
Il risultato è quello che in “Diario di un inadeguato”, il suo nuovo spettacolo che trasforma in atto unico ciò che per altri sarebbero stati (e forse lo sono stati anche per lui) decenni di analisi, viene detto da un capocomico ottimista che lo scrittura per uno spettacolo in cui il giovane Emanuele sarà canissimo: «Somiglia a Salce ma parla come Gassman».
Come sopravvivi al crescere con Gassman che ai funerali dei parenti viene inseguito dal celebrante che vuole un autografo su un libretto di canti liturgici? Come sopravvivi se non hai un mestiere e neanche te la cavi nel resto, «a vivere non ero granché capace»? Come sopravvivi se non hai appreso la grammatica delle relazioni ma un po’ ti dispiace, «da soli a malapena ci si basta ma certo non ci si avanza»?
“Mumble Mumble” finiva con un’indicibile scena imbarazzante che si svolgeva davanti a un nuovo amore, un’australiana (era prima che il neriparentismo diventasse territorio del ceto medio riflessivo: dopo gli interminabili minuti di gente che si vomita addosso in “Triangle of sadness”, il cesso nel museo di Emanuele Salce risulta quasi delicato).
“Diario di un inadeguato” è il seguito: l’australiana arriva in città. Fa molto ridere e quindi non ve lo dettaglierò casomai voleste vederlo (è a Roma, al Cometa off, fino al 18 dicembre), ma non posso non raccontare la scena in cui l’australiana viene portata a cena dalla mamma, una scena per la quale ho riso, ho pianto, e mi sono cetomedioriflessivamente vomitata addosso (non è iperbole: è reflusso).
Raccontano d’una scrittrice esordiente che a una cena aveva chiesto a Philip Roth «e lei di cosa si occupa?»: era una scena così bella che l’avevo sempre creduta inventata. Poi sono andata a teatro, a sentire Emanuele Salce che racconta quella sera di fine secolo in cui portò un’australiana a cena dalla sua famiglia.
A un certo punto, sono a tavola, l’ignara australiana chiede a Vittorio Gassman – uno che nella sua autobiografia si vantava di aver fatto pervenire a Romy Schneider, senza conoscerla, un biglietto in cui le diceva che non l’avrebbe voluta scopare mai; uno che disse a Enzo Biagi «Mi accorgo soprattutto di me, non posso farci niente», incidentalmente la frase che vorrei sulla mia lapide – che lavoro faccia.
Gassman, monologa Salce sul palco, inizialmente fa l’uomo di mondo, «I’m retired», sono in pensione. L’ignara, sempre più ignara, insiste: lei ha una bella faccia, avrebbe potuto fare l’attore. A quel punto uno dei fratelli di Emanuele pietosamente spiega alla tapina – che in lessico vittoriogassmaniano è: bionda cangura – che in effetti papà qualche particina al cinema l’ha fatta.
Intanto la madre di Emanuele, Diletta D’Andrea, ride quasi più di quanto avrei poi riso io in platea ventitré anni dopo (pensate essere da tre decenni la moglie di Vittorio Gassman, accollarsi quell’ego per trent’anni, e all’improvviso trovare una che, senza malizia, non sa chi sia questo tizio compiaciuto di sé).
La bionda cangura decide di rimediare dicendo che a lei in realtà il cinema italiano piace tanto: il mio attore preferito è Marcello Mastroianni, lo conosci? (Era il Natale del 1999, Vittorio Gassman sarebbe morto sei mesi dopo, chiaramente dei postumi di questa ferita all’ego).
Quella per i figli dei giganti è un’ossessione della me adulta. La me ragazzina era ossessionata da Vittorio Gassman, ed è forse per questo che mi concentro sul cameo di Vittorio in quello che in realtà è un monologo sull’educazione sentimentale di Emanuele, uno che rifugge le relazioni con una tenacia woodyalleniana: «Io non sarò il più risolto dei casi umani, ma tu, tu che t’innamori di me, tu stai messa molto peggio».
Non ve lo dico, come e se finisce la storia con la bionda cangura, o l’educazione sentimentale. Al massimo posso dirvi come finì quella serata a casa Gassman/D’Andrea. Con Vittorio che li congeda col perfettissimo viatico degli anaffettivi: beati voi, che non avete un’anima.