Potrei partire dall’inverno del 1982 e dalla mia schifa infanzia, ma comincerò invece dall’autunno 2022 e dalle schife infanzie dei vostri figli. Partirò da una serie di tweet di una madre milanese il cui figlio aveva la febbre.
Cronaca di molteplici vane telefonate al pediatra, di ore d’attesa al pronto soccorso con bambini seduti per terra tutti marci di catarro e plausibilmente veicoli di contagio, di questa è Milano signora mia, il tutto con molti tag fotografia del paese reale e della di esso idea di chi siano i risolutori di problemi: Assia Neumann e Report, Myrta Merlino e il comune di Milano.
Sotto, una sleppa di anch’io: anche a me il pediatra privato viene a casa ma quello pubblico no, anche il mio puccettone ha avuto la febbre senza che si mobilitasse il ministro della Sanità, anch’io madre disperata da quando la pediatra come-le-facevano-una-volta è andata in pensione.
Ho letto questa conversazione nella sala d’attesa d’un medico, privatamente retribuito, il quale mi ha visitata con un’ora di ritardo e dopo un quarto d’ora smaniava per concludere la visita. Comunque meglio del medico della mutua (di base, si dice in neolingua) che avevo a Milano, una dottoressa che al terzo minuto in cui le elencavi i tuoi sintomi già stava andando verso la porta per far entrare il successivo paziente della catena di montaggio.
Di recente ho rivisto Il medico della mutua, il film del 1968 in cui Sordi interpretava per la prima volta il dottor Guido Tersilli, all’epoca neolaureato e smanioso di accumulare pazienti non solventi: lo Stato gli avrebbe corrisposto cifre tanto più alte quanti più ne avessero affollato l’ambulatorio. Se ricordo bene nell’ultima scena, che doveva farci capire come ormai il dottor Tersilli fosse diventato avido e disinteressato al benessere dei malati, la sua segretaria gli fissava un appuntamento ogni mezz’ora, poveri pazienti come polli da batteria.
Mi rendo conto che come-si-stava-meglio-nel-Novecento è un’attitudine stucchevole e noiosissima, ma è difficile negare che si stesse meglio quando non eravamo otto miliardi, quando le risorse pubbliche non erano state drenate da gente ipocondriaca quanto me ma determinata a farsi fare gratuitamente tutti gli esami superflui, quando mezz’ora non era un tempo di visita nel quale non puoi sperare neanche se quello specialista lo paghi alcune centinaia di euro.
Il medico della mutua milanese riceveva due pomeriggi a settimana (mai capito cosa facesse il resto del tempo lavorativo che le mie tasse contribuivano a remunerarle, visto che a domicilio abbiamo conferma dalle mamme che non ci vengono neanche in caso di morte imminente), e non sono mai riuscita a farmela passare al telefono: la segretaria di Joe Biden è probabilmente un filtro meno efficace della sua.
Quella di Bologna, non so se perché in mezzo c’è stata la pandemia o perché è giovane e ha più disinvoltura con la tecnologia, un giorno mi ha perfino richiamata: stavo per mettermi a piangere come quando il biondino per cui avevo avuto una cotta per tutte le medie mi dichiarò il suo amore dopo che ero andata a vivere a quattrocento rassicuranti chilometri di distanza.
Purtroppo la giovinezza garantisce familiarità con WhatsApp ma anche una certa qual incapacità di capire alcunché. Il dottore che ho avuto prima di lei sosteneva che il colesterolo a 258 non necessitasse di medicinali (commento mio: ma poverino, è del ‘93, lei si ricorda quant’era scemo a 29 anni?; risposta del mio cardiologo ultrasessantenne: meno di così). A una giovane farmacista (il dramma dei giovani farmacisti inetti potrebbe diventare una grande commedia) ho dovuto spiegare io che no, sul computer a Bologna non le compare la ricetta dell’antibiotico che mi ha scritto un medico romano: la sanità è a gestione regionale, ha fatto di recente le medie, se le ricorda le regioni?
Quand’ero giovane e raccomandata, era tutto più semplice: il medico della mutua era amico di papà, la farmacista era amica di papà, gli specialisti essendo amici di papà non solo ti ricevevano senza appuntamento ma neppure li pagavi. Quando nell’inverno dell’82 il pediatra venne alle undici di sera, appena arrivammo a casa dall’aeroporto, venne perché all’epoca il servizio sanitario nazionale era giovane e tonico, o perché era amico di papà? E quando, dopo dieci giorni di convinzione di tutti – mio padre medico e i quattro primari suoi amici con cui eravamo in villeggiatura africana – ch’io avessi la malaria, spiegò come mai dieci giorni di chinino non mi avessero abbassato la febbre con un icastico «E tu saresti un medico? È varicella», stava forse offrendoci uno squarcio di futuro?
Non è, non vorrei minare le certezze delle mamme di puccettoni con pediatri a chiamata retribuita, neanche un problema di sanità pubblica – che ovviamente è peggio, come tutte le cose illusoriamente gratuite; ma, rispetto a quando sul pianeta eravamo la metà, è peggioratissima anche quella privata. Quest’estate ho dato, a un centro milanese privato, l’equivalente d’un medio stipendio e mezzo per un check-up. A parte l’episodio dell’infermiere Mario, già narrato su queste pagine, mi hanno dimenticata due ore in sala d’attesa, alcuni specialisti erano irritati perché in ritardo per la pausa pranzo e non avevano tempo per ascoltare i miei sintomi, e l’agosto italiano è sacro, quindi i risultati sono arrivati due mesi dopo e gli esami del sangue erano ormai inattendibili e da rifare.
D’altra parte, il barista medio non sa farti il cappuccino della temperatura giusta; il fattorino medio non ha voglia di fare le scale per consegnarti la cena (Just Eat, ancora aspetto il rimborso della sera in cui m’hai lasciata digiuna, ormai due settimane fa); portare i broccoli a domicilio pare sia impresa che richieda un praticantato alla Nasa (Cortilia, ancora aspetto tu mi restituisca i soldi della spesa fradicia e frammista a vetri esplosi, neanche venisse da Beirut, che ti ho rimandato indietro quaranta giorni fa: fai pure con calma); il tassista medio non conosce le strade, l’avvocato medio non conosce i codici, il giornalista medio non conosce la grammatica. Per quale anomalia statistica la sanità dovrebbe invece essere una terra dei miracoli i cui abitanti sanno fare il loro lavoro e in cui tutto funziona come fosse il Novecento e i titoli di studio e le qualifiche professionali significassero qualcosa?