«Non posso accettare […] che quando circoliamo nelle nostre città ci sembra di essere, e mi è capitato nel centro di Milano, in una città africana e non una città europea […] C’è chi vuole una società multietnica e multicolore […] ma noi non siamo certo tra questi.» Non è l’opinione di un passante qualunque o di un simpatizzante dell’estrema destra, ma di Silvio Berlusconi nel 2009, quando era Presidente del consiglio.
Vedremo in seguito l’impatto dell’immigrazione massiccia sul mondo sviluppato, ma consideriamo dapprima l’esplosione demografica che la sta alimentando e che avviene in alcune parti del mondo in via di sviluppo. In Asia e nell’America Latina la crescita demografica sta rallentando: nella maggior parte dei paesi l’età mediana aumenta e l’emigrazione di massa diventa meno probabile.
È per questo motivo che, negli ultimi anni, il flusso netto di persone tra il Messico e gli Stati Uniti si è invertito. Ma il grande scatto di crescita africano si trova nel futuro. Gran parte dell’emigrazione avverrà all’interno del continente, dalla campagna alle città e da paesi meno fiorenti ad altri più benestanti, ma varie persone si dirigeranno anche verso l’Europa. Questa è la parte più accessibile del mondo sviluppato, ma anche il continente più noto agli africani, per via della loro storia coloniale e delle lingue che parlano, soprattutto l’inglese e il francese. Una persona neolaureata in Senegal, frustrata per la scarsità di impieghi in patria, conosce meglio Parigi di Pechino; a una sua omologa nel Lagos è più familiare Londra di Tokyo.
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Oltre alla pressione demografica, all’attrattiva economica e ai desideri stimolati dalla tecnologia, l’emigrazione dall’Africa è alimentata dall’emigrazione stessa. Cugini che sono già riusciti a compiere la traversata sono incoraggiati o convinti ad aiutare altri parenti a raggiungerli nella nuova patria. E non appena raggiunta una certa massa critica, la comunità nel paese di arrivo può facilitare il viaggio ad altri. Si occuperà magari di individuare gli itinerari da percorrere, legali e illegali, o aiuterà a trovare contatti, un alloggio e informazioni all’arrivo, tutte cose necessarie a un immigrato recente per cavarsela.
Magari una zia finanzia in parte il viaggio, un cugino fornisce un divano su cui dormire per le prime notti, un vecchio amico può aiutare a trovare lavoro. Negozi, ristoranti, giornali e altri beni e servizi come quelli in patria permettono all’immigrato recente di sentirsi a suo agio in una bolla sociale e culturale che ha l’aroma del paese natio; tutto ciò aiuta ad ambientarsi e incoraggia un’ulteriore immigrazione. Questo è vero per gli africani che arrivano oggi in Europa proprio come lo era per gli ebrei o i siciliani che raggiungevano New York all’inizio del Novecento.
L’entità dell’immigrazione africana in Europa dipende anche dalle politiche migratorie europee. Tra l’agosto del 2017 e il 2018, in totale, sono arrivati in Italia 183 000 migranti. Molti africani che la raggiungono vorrebbero spostarsi altrove, ma un milione o più rimane. Sono decenni che i partiti populisti italiani guadagnano consensi, ma il fattore decisivo che li ha condotti al potere nel 2018 è stata l’esplosione del numero di immigrati. Per quanto alcuni si sentano a disagio nell’am- metterlo, la crescita demografica africana sta già cambiando la geografia etnica e politica dell’Europa.
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Alla fine degli anni ottanta e nei primi anni novanta, ad alcuni sembrava che con la fine della Guerra fredda si fosse giunti alla «fine della storia». Chiaramente il modello che funzionava meglio era la democrazia liberale con un’economia mista, e con il tempo il mondo intero l’avrebbe adottato. Il fautore più celebre di questa tesi era Francis Fukuyama, politologo che parlava di «tendenza a dirigersi verso la Danimarca»: voleva dire che prima o poi l’umanità intera avrebbe cercato di riprodurre la prosperità, il liberalismo, la stabilità politica e i diritti umani ottenuti dai danesi.
Dal punto di vista politico, è discutibile che il mondo intero stia convergendo verso la Danimarca, paese liberale e moderato che può vantare un basso livello di criminalità, un’economia efficiente, uno stato sociale generoso e istituzioni democratiche stabili. È tuttavia molto più facile sostenere la convergenza demografica.
In questo ambito è vero che il mondo si sta avvicinando alla Danimarca, con bassi tassi di mortalità infantile, una maggior speranza di vita, un’età mediana in crescita e famiglie più piccole. Anzi, riguardo a questi parametri alcuni paesi hanno superato la Danimarca: i giapponesi vivono tre anni più dei danesi e i greci hanno quasi mezzo figlio in meno.
Un’eccezione è però il tasso di fecondità dell’Africa subsahariana. È ragionevole pensare che la tendenza sia di tipo danese, ma la velocità e l’entità della transizione africana verso un basso tasso di fecondità, tipico di ogni altra zona, sono grandi incognite demografiche. Il nostro futuro demografico dipende in gran parte da questo, inclusa la domanda se, alla fine di questo secolo, saremo oltre 15 miliardi o poco più di 7 miliardi. Uno studio pubblicato nel 2014 su The Lancet ipotizza che la popolazione mondiale raggiungerà un picco di poco inferiore ai 10 miliardi nel 2064 e che entro il 2100 sarà scesa sotto i 9 miliardi, mentre le Nazioni Unite stimano che alla fine di questo secolo la popolazione globale sarà di quasi 11 miliardi, e ancora in crescita lenta.
È abbastanza certo che in Africa aumenterà la speranza di vita, ma l’andamento dei tassi di fecondità è meno chiaro. Ancora oggi le donne africane hanno in media cinque figli; questa cifra è cambiata poco da settant’anni a questa parte ed è diversa da quasi ogni altra parte del mondo. Secondo la previsione «intermedia» delle Nazioni Unite (compresa fra le stime più alte e più basse), entro il 2100 le famiglie africane si rimpiccioliranno fino al livello di sostituzione: circa 2,2 figli. Se però questa cifra supererà 2,5, la popolazione africana sarà di 5 miliardi e mezzo. Uno studio del 2020 prevede che i tassi di fecondità africani scenderanno sotto i 2 figli per donna entro il 2100, quando la popolazione africana sarà di circa 3 miliardi.
L’umanità di domani, Paul Morland, Il saggiatore, 336 pagine, 25 euro