Fuggire per il climaLa realtà dei migranti ambientali che non possiamo più ignorare

Chi scappa dagli effetti del riscaldamento globale non gode di alcun tipo di tutela internazionale. Governi e istituzioni non stanno facendo abbastanza per risolvere un fenomeno destinato ad aggravarsi di anno in anno. Solo nel 2021, il ventiquattro per cento degli episodi di sfollamento sono scaturiti da calamità naturali

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Le persone scappano da molte cose: dalla guerra, dalla fame, e da qualche decennio anche dalle conseguenze della crisi climatica. D’altronde il 2022, che si è concluso con temperature ben oltre la media stagionale ci ha dato l’ennesima prova che qualcosa sta cambiando: la Noaa (l’agenzia scientifica statunitense che si occupa, tra le altre cose, di monitorare le condizioni atmosferiche) dice che si è meritato un posto nella speciale classifica degli anni più caldi, collocandosi tra la quarta e la sesta posizione. 

Non siamo sul podio, almeno per questa volta, e menomale, ma non per questo possiamo considerarci al sicuro. Come si legge nel primo volume del Sesto Rapporto di Valutazione dell’Ipcc (il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) negli ultimi 50 anni la temperatura terrestre è cresciuta ad una velocità record rispetto agli ultimi 2 mila anni, con conseguenze piuttosto evidenti (e disastrose) su ambiente e persone. Gli ecosistemi si sono alterati e gli individui lottano quotidianamente per la sopravvivenza. 

Nessuno può ritenersi totalmente al sicuro ma, come scrive Legambiente nel suo ultimo report sugli impatti della crisi climatica, «a pagare il prezzo più alto sono i gruppi sociali più fragili», persone cioè che hanno un limitato accesso a servizi e risorse, o che traggono sostentamento dal territorio circostante e che per questo hanno difficoltà ad adattarsi agli effetti del surriscaldamento globale.

L’Ipcc ritiene che quasi la metà della popolazione mondiale (il quaranta per cento, tra i 3,3 e i 3,6 miliardi di persone) vive in contesti di estrema vulnerabilità ai cambiamenti climatici. Africa occidentale, centrale e orientale, Asia meridionale, America centrale e meridionale, i piccoli stati insulari in via di sviluppo e l’Artico sono le aree maggiormente a rischio: qui, tra il 2010 e il 2020, la mortalità umana a causa di eventi estremi (tra cui inondazioni, tempeste e siccità) è stata quindici volte superiore rispetto alle regioni con una vulnerabilità più bassa. Un numero che sarebbe potuto essere molto più alto se migliaia di individui non avessero deciso di spostarsi altrove. 

L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) li definisce migranti ambientali, cioè «persone o gruppi di persone che, principalmente a causa di un cambiamento improvviso o progressivo dell’ambiente che influisce negativamente sulla loro vita o sulle loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro case abituali, o scelgono di farlo, sia temporaneamente sia permanentemente, e si spostano all’interno del loro paese o all’estero». Tra il 2012 e il 2022, il Migration data portal ne ha contati una media di circa 21,6 milioni all’anno, che entro il 2050 potrebbero diventare 216 milioni. 

Fonte: migrationdataportal.org

Solo nel 2021, su un totale di trentotto milioni di episodi di sfollamento interni registrati nel mondo, ben 23,7 sono scaturiti da calamità naturali. Nel novantaquattro per cento dei casi il pericolo è dipeso dalle condizioni meteorologiche, principalmente tempeste, inondazioni e siccità e i cinque Paesi con il numero più alto di migranti climatici sono stati Cina (sei milioni), Filippine (5,7 milioni), India (4,9 milioni), Repubblica Democratica del Congo (888mila) e Vietnam (780mila). 

Le previsioni dicono che nei prossimi trent’anni l’Africa subsahariana potrebbe ritrovarsi a gestire gli spostamenti di ben ottantasei milioni di migranti climatici interni, l’Asia orientale e il Pacifico quarantanove milioni, l’Asia meridionale circa quaranta. Per il Nord Africa e l’America Latina i numeri potrebbero oscillare tra i diciannove e i diciassette milioni, mentre per l’Europa orientale e l’Asia centrale la cifra si “abbassa” a cinque milioni. 

Il problema non sta solo nel fatto che milioni di persone sono e saranno costrette a muoversi. O meglio, la questione non si esaurisce così. Quello del surriscaldamento globale è, come lo definisce Legambiente, un vero e proprio «innesco». La «scintilla climatica», intrecciandosi con una serie di fattori tra cui le tensioni religiose, sociali, politiche e il peggioramento delle condizioni economiche, esaspera il contesto. 

Il risultato è una popolazione ridotta allo stremo, una condizione che contribuisce ad accendere i conflitti per via della «corsa all’accaparramento delle risorse territoriali, in contesti di stretta sussistenza con il territorio e di progressivo degrado delle condizioni ambientali peggiorate dal riscaldamento globale», come è accaduto nella regione africana del Sahel. Qui il settanta per cento della popolazione vive di agricoltura e pastorizia, entrambe attività che necessitano di terreno fruttuoso. 

Tuttavia i lunghi periodi siccitosi, interrotti in alcuni periodi dell’anno da violente piogge e inondazioni, hanno acuito la lotta per accaparrarsi quella piccola fetta di suolo ancora produttiva e le poche risorse idriche a disposizione. Così è accaduto anche altrove. Lo studio “Il clima come fattore di rischio per i conflitti armati”, pubblicato dalla rivista Nature e basato sulle opinioni di una serie di esperti, dice che dal tre per cento al venti per cento dei conflitti del secolo scorso ha avuto fra le cause scatenanti fattori legati al clima. 

Percentuali che potrebbero inasprirsi per via del continuo declino delle condizioni climatiche. Nel peggiore dei casi, secondo la ricerca, se in un futuro prossimo l’aumento della temperatura media dovesse raggiungere la soglia dei quattro gradi, il rischio di conflitto aumenterebbe del ventisei per cento. Provando ad essere più ottimisti e auspicando che la crescita delle temperature medie non superi i due gradi, il rischio di conflitto aumenterebbe comunque del tredici per cento. 

Oltre il danno pure la beffa, verrebbe da dire, visto che gli individui più vulnerabili (e più poveri) della Terra, quelli cioè che subiscono maggiormente le conseguenze dirette e indirette del surriscaldamento del Pianeta, sono spesso quelli che producono meno emissioni, e che quindi contribuiscono meno alla crisi climatica. Oxfam, Ong per la lotta alla povertà mondiale, dice che tra il 1990 e il 2015 – periodo in cui le emissioni di anidride carbonica in atmosfera sono più che raddoppiate – il dieci per cento più ricco del mondo è stato responsabile di oltre la metà (cinquantadue per cento) della produzione di CO2. 

Dovrebbe essere piuttosto chiaro, a questo punto, che questione climatica e questione sociale non possono essere valutate separatamente e che discutere “solo” di come ridurre le emissioni ormai non è sufficiente. Prima di tutto perché, anche qualora (supponiamo) ci fosse un radicale cambio di rotta, gli effetti positivi del dietrofront non sarebbero immediati. La ferita è profonda, e il Pianeta ha bisogno di tempo per provare a risanarla. 

Dunque, rimanendo con i piedi per terra e ragionando concretamente, se le conseguenze del cambiamento climatico ad oggi si possono limitare ma non cancellare, è importante imparare a conviverci nel miglior modo possibile, adottando misure di “adattamento” che possano soprattutto alleviare la vulnerabilità sociale di certi gruppi di persone. Come? Cominciando ad esempio a gestire con criterio le migrazioni ambientali. C’è molto da lavorare, anche perché non esiste tutela internazionale per i migranti ambientali. Una lacuna normativa inaccettabile, soprattutto dopo la recente risoluzione delle Nazioni di Unite che ha inserito tra i diritti umani universali la qualità dell’ambiente in cui si vive.

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