MockumentaryPhilomena Cunk non sa con quante zeta si scrive Pulitzer, ma se ne merita uno

Alle interviste improbabili della protagonista, più autentiche e soprattutto divertenti di quelle posate a cui siamo abituati, riesce un miracolo di divulgazione. Esce su Netflix la serie della Bbc

Philomena Cunk, protagonista di una serie tv della Bbc
Foto: Bbc

Da grande voglio essere Philomena Cunk. Potete non riconoscere (ancora) il nome, ma non il viso. Anzi, la mimica facciale. L’avrete già vista in una clip virale sui social, di solito TikTok. Il format, tempi comici imbattibili, prevede interviste a superstar accademiche, impassibili o complici di fronte a quesiti lunari. Se vi ha fatto ridere quel frammento, non potete fare a meno di recuperare l’originale per intero. Cunk on Earth, prodotta dalla Bbc e da oggi disponibile su Netflix anche in Italia, è la via britannica al mockumentary, un surrealismo alla Between Two Ferns (o alla Valerio Lundini, se preferite) che incontra Licia Colò, la versione lisergica di Alberto Angela.

Definire una categoria professionale – almeno, una sola – per la protagonista, interpretata da Diane Morgan, è complicato. Il tweed, di primo acchito, ricorda il look di una detective. Elementare, Philomena, ma in senso letterale. Perché di questo viaggio nella storia dell’umanità, dai primordi al cambiamento climatico, colpiscono soprattutto l’estrema capacità di sintesi (trecentomila anni in sei episodi da mezz’ora) e la nettezza degli interrogativi che lo accompagnano. Un pressapochismo da Caso Scafroglia a cui riesce il miracolo di insegnare realmente qualcosa. L’apporto educativo non sarà lo stesso di un documentario, ma è molto più divertente.

Per esempio, si apprende che la Muraglia cinese non si vede dallo spazio. Per guardare Cunk on Earth, invece, non serve finalmente più una Vpn. A lei suonerebbe come un acronimo impenetrabile. L’incedere dei secoli, senza lesinare occasionali costumi di scena, è scandito da interrogativi così improbabili da spiazzare. O da innescare risposte sorprendenti. Malgrado i suoi evidenti limiti, il flirtare con il quiet quitting e l’anaffettività verso il suo lavoro, Philomena diventa quasi una divulgatrice scientifica. Una formidabile interprete di un gentismo innocuo.

Chiede a venerati esperti della loro nicchia se le piramidi hanno «quella forma» per impedire ai senzatetto di dormirci sopra, se ha avuto più successo il Rinascimento o Single ladies di Beyoncé. «Dovremo ripensare interamente questa intervista», sbuffa dopo l’ennesimo errore di battitura sui foglietti che si porta dietro. Memorabile, nella prima serie tutta inglese, domandarsi perché gli elettori avessero preferito i Blur agli Oasis, riferendosi ovviamente a Tony Blair. Oppure, gli addominali del David di Michelangelo dimostrano che la palestra non serve a niente, «non esistevano le palestre a quei tempi», prima di stupirsi perché la statua non ha un ano.

Deride l’arte rupestre, l’equivalente di Fast and furious per i nostri antenati. Oppone ai soundbite misurati degli accademici, da Oxford e Cambridge, aneddoti del suo amico Paul. Loro non si scompongono. In un’intervista, i produttori hanno confidato che gli ospiti vengono avvisati del taglio ironico del programma, ma non del tenore delle domande. Da quarantacinque minuti, un’ora di colloquio, vengono poi estratti gli scambi iconici. È il bello del non pianificato, come redarguire una professoressa per essersi messa a ridere, magari confidando in una pausa delle riprese.

In tutte le puntate spunta, senza alcuna ragione narratologica, Pump Up the Jam, un brano dei Technotronic del 1989 di cui Netflix ha dovuto comprare i diritti. Spendere una parte del budget per una battuta apparentemente nonsense è forse lo spirito dell’intera serie. Poter scrivere uno sketch per il gusto di andare dov’è ambientato, sogno proibito (e forse irrealizzabile) di generazioni di autori. Il valore aggiunto dell’outdoor rispetto agli studi posati, però, è anche quello. Chi la critica come parodia le invidia l’archivio immagini.

Philomena piange quando scopre che Laika, la cagnolina mandata in orbita dai sovietici, non ha mai fatto ritorno sulla Terra, o che le bombe atomiche esistono ancora. Paragona la radioattività ai chakra o ai campi di energia che «ti connettono ai tuoi segni zodiacali e influenzano il modo in cui digerisci il glutine». Impossibile sapere, dall’ineffabile sorriso, se Monna Lisa ce l’ha con te. Ribattezza Vladimir Ilic John Lennon il leader della Rivoluzione d’ottobre. Una storpiatura tra il mauriziocostanzismo e l’età aurea di Luca Giurato che le varrebbe una comparsata su una pagina «Out of context», a riprova che la fantasia, quand’è scritta così bene, supera la realtà.

Il pubblico televisivo si è abituato a interviste futili, concordate o mero riempitivo dei palinsesti. Ai talk che costano meno delle inchieste. Quelle di Philomena Cunk, così inverosimili, riescono a essere autentiche. Il Guardian l’ha definita «un personaggio scritto così bene che è facile dimenticare non sia reale». Si può estendere l’adagio, ma al contrario, a una parte dei documentari su cui siamo cresciuti. A forza di modernariato, teche da valorizzare e voci impostate, veniva da dubitare che fosse realismo quello. Philomena Cunk non esiste (fino a prova contraria), ma abbiamo un disperato bisogno di lei.

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