Metalli dagli oceaniL’incalcolabile rischio ecologico dell’estrazione mineraria in acque profonde

Nella comunità internazionale si parla di una moratoria sul “deep sea mining”. L’obiettivo non è necessariamente fermare le miniere sottomarine, ma permetterle solo quando la ricerca scientifica avrà raggiunto il livello di quella tecnologica

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L’estrazione mineraria di profondità sul fondale marino è forse il rischio ecologico planetario su vasta scala più grande del quale non avete ancora sentito parlare, una prospettiva che contiene tutti i paradossi dell’attuale modello di sviluppo globale e i rischi di tradurlo dalla vecchia economia fossile a quella della transizione. 

«Ci sono stati momenti in cui mi sono commosso, a narrare questo documentario, non riuscivo a trattenere le lacrime», ha detto l’attore Jason Momoa, che per il mondo è soprattutto Aquaman dell’universo Marvel e forse anche per questo è stato scelto come voce del documentario “Deep Rising”. Il film è stato presentato all’ultimo Sundance Film Festival e parla esattamente di questo, il fondale oceanico come «ultima vera frontiera del non esplorato e del non ancora sfruttato su questa Terra», come lo ha definito Avery Arena su Slate.

La transizione energetica, soprattutto per il settore della mobilità, ha una disperata fame dei cosiddetti metalli critici, dal litio alle terre rare, dal nickel al cobalto, tutti elementi decisivi per scalare la produzione di batterie. La quota di auto elettriche vendute nella seconda parte del 2022 è stata del 5,6 per cento del totale, contro il 2,7 del periodo equivalente del 2021. 

Secondo una ricerca di Bloomberg, cinque per cento è la quota superata la quale iniziano le dinamiche di un’adozione di massa, una prospettiva auspicabile e coerente con l’accordo di Parigi, ma che apre tutta una nuova frontiera di rischi. E molti di questi portano verso il fondo del mare. Da anni i prezzi dei metalli critici sono alle stelle, le risorse spesso scarse e su mercati instabili. 

Ogni notizia su questo fronte genera fibrillazioni, dalle proteste contro nuove miniere di litio in Europa alla scoperta del più grande giacimento di terre rare in Europa, in Svezia. Ma nel mondo c’è una gigantesca miniera inesplorata per molte di queste risorse ed è il fondale dell’oceano, che è allo stesso tempo uno degli ecosistemi più delicati della Terra e l’angolo che ne conosciamo meno. Solo un quinto dei fondali degli oceani è mappato, oggi conosciamo meglio la superficie della Luna che il fondo del mare. 

L’epicentro di questa nuova, rischiosa frontiera della ricerca mineraria è un’immensa zona dell’Oceano Pacifico, una frattura del fondale lunga oltre settemila chilometri tra le Hawaii e il Messico, dove sono stati localizzati migliaia di miliardi noduli polimetallici che aggregano quasi tutti i metalli critici per la transizione energetica: nickel, cobalto, rame, zinco, manganese. 

Oggi l’estrazione non è ancora in corso, è in una fase di sperimentazione e test, ma questo è un settore nel quale la regolamentazione va più lenta dell’innovazione, quindi rischiamo presto di trovarci di fronte a uno scenario in cui estrarre metalli dagli oceani sarà tecnicamente possibile molto prima di avere regole o certezze scientifiche sui rischi. 

Di recente, Greenpeace ha diffuso il leak di un video della principale azienda mineraria attiva su questo fronte, la canadese Metals Company, nel quale si vedono chiaramente i rifiuti di un esperimento di estrazione riversati in mare in negazione di ogni procedura o precauzione. I noduli vengono aspirati dal fondale con una serie di tubi insieme a una grande quantità di detriti, che vengono spostati da un ecosistema all’altro, dal fondale alla superficie, con un rischio alto di avvelenamento ecosistemico.

Di per sé, quel video potrebbe essere accompagnato a migliaia di altri sversamenti trasversalmente ai settori, ma è più inquietante proprio perché apre alla prospettiva di uno sfruttamento selvaggio su vasta scala che potrebbe iniziare a essere operativo già da quest’anno. Metals Company non aveva comunicato pubblicamente l’incidente, nonostante si fosse in fase di sperimentazione e ogni informazione sia cruciale, e se non fosse uscito il video non ne sapremo nulla.

L’organismo che sovraintende le regole sul fondale degli oceani ha sede a Kingston, in Giamaica, e si chiama International Seabed Authority: 167 Paesi membri più l’Unione europea. Nel 2021 il piccolo stato insulare di Nauru, stimolato dagli interessi minerari di cui sopra, ha fatto scattare la cosiddetta regola dei due anni: ha fatto richiesta di poter fare operazioni minerarie sul fondale. 

I due anni scadono a luglio: se non arriverà un diniego esplicito, The Metals Company – gli stessi del video diffuso da Greenpeace – potranno iniziare a fare sul serio, anche in assenza di regole adeguate. È per questo motivo che nella comunità internazionale si parla sempre più spesso di una moratoria sull’estrazione di profondità. L’hanno chiesta centinaia di scienziati in una lettera aperta e la Francia di Macron si è fatta portavoce politico di questa richiesta negli ultimi incontri Onu sugli oceani. 

L’obiettivo non è necessariamente fermare le miniere sottomarine, ma permetterle solo quando la ricerca scientifica avrà raggiunto il livello di quella tecnologica. In sostanza, presto sapremo come fare queste estrazioni, ma siamo ancora molto lontani dal sapere se sarà effettivamente il caso di farlo. Conosciamo i benefici, ma non sappiamo ancora niente dei rischi. 

Il rischio ecologico, il bisogno di ulteriore ricerca e di regole chiare e trasparenti non riguarda soltanto un’area remota dell’Oceano Pacifico. A fine gennaio fa una ricerca norvegese ha riportato il ritrovamento di alti quantitativi di metalli critici nelle acque territoriali della Norvegia: trentotto milioni di tonnellate di rame, quarantacinque milioni di tonnellate di zinco, 3,1 milioni di tonnellate di cobalto, 1,7 milioni di tonnellate di terre rare. Un tesoro che da luglio potrebbe essere possibile estrarre, in prossimità delle delicate acque dell’Artico.