«Il 2022 è stato un anno buttato dal punto di vista climatico» a dirlo è Bas Eickhout, eurodeputato olandese dei verdi a capo della delegazione del Parlamento Ue che si è riunita qualche mese fa a Sharm el-Sheikh per la Cop27. Che sia proprio così? La Cop27 è terminata, ma forse restano ancora da fare i conti con la Cop26 del 2021.
Facciamo un passo indietro. Glasgow 2021, tutto in tema green, piante rampicanti come allestimento, grandi sorrisi, strette di mano e poi un accordo che lascia, di fatto, tutti insoddisfatti: gli attivisti rimproverano ai governi scelte poco coraggiose, i governi replicano dicendo che l’economia deve essere protetta (e così gli accordi commerciali già firmati). In più, non tutti i leader politici si presentano all’appuntamento (Xi Jinping, Vladimir Putin e Jair Bolsonaro) e l’atmosfera è visibilmente tesa.
Alla fine, un accordo viene raggiunto: azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2050 e limitare l’aumento delle temperature a 1,5°C. Un primo banco di prova viene fissato nel 2030 e da lì si capirà se la direzione imboccata è quella corretta. Per arrivare ai risultati auspicati, ogni Stato dovrà: accelerare il processo di phase-out dal carbone, fermare la deforestazione entro il 2030, accelerare la transizione verso i veicoli elettrici e incoraggiare gli investimenti nelle rinnovabili.
Attorno a questo patto ruotano circa 19 miliardi di dollari tra fondi pubblici e investimenti privati, i Paesi a firmarlo sono 197 e gli occhi sono come sempre puntati sui grandi nomi (firmatari e non): Stati Uniti, Cina, Russia, Unione europea, e soprattutto il Brasile, che ospita buona parte della foresta amazzonica, il Canada (qui c’è la foresta boreale) e la Repubblica Democratica del Congo (sede della seconda foresta pluviale più grande del mondo).
In pratica, ai governi si chiede di «rompere il legame tra le catene di approvvigionamento delle materie prime agricole e la deforestazione» e di farlo agendo anche su chi queste materie prime le produce. Ventotto tra i maggiori produttori o consumatori di prodotti come olio di palma, soia, cacao, carne bovina e legname si sono impegnati per questo.
A più di un anno dalla firma degli accordi di Glasgow, si può tracciare un primo bilancio soprattutto sul tema della deforestazione. Sulla riduzione dei combustibili fossili, invece, la guerra in Ucraina è stata senza dubbio una variabile che non poteva essere considerata e, in un momento di grande incertezza, il gas e il carbone sono tornati “di moda”.
Un terzo delle aziende più legate alla distruzione delle foreste pluviali tropicali non ha fatto nulla per fermare la deforestazione, lo rivela il rapporto Forest 500 di Global Canopy. Chi invece ha costruito politiche per proteggere le foreste non le sta monitorando, e le aziende potrebbero continuare a deforestare per mantenere alto il livello produttivo. Delle cento imprese che si sono impegnate per combattere la deforestazione, solo il cinquanta per cento sta controllando i propri fornitori o le regioni dalle quali i prodotti provengono.
Secondo il rapporto, le istituzioni finanziarie sovvenzionano con sei miliardi di dollari le aziende che operano nelle catene di approvvigionamento a rischio forestale, ma Forest 500 dice che «solo una piccola parte delle istituzioni finanziarie più esposte alla deforestazione la sta considerando come un rischio sistemico». Il sessantuno per cento, infatti, non ha attuato una misura che copra i prestiti e investimenti delle aziende, e solo il trentadue percento ha riconosciuto pubblicamente la deforestazione come un «rischio aziendale».
Parlando di abbattimento degli alberi, non si considerano solo i danni all’ecosistema (che sono tanti) o l’emissione di anidride carbonica nell’atmosfera (un quarto delle emissioni di gas serra deriva dalla distruzione di foreste per fare spazio a piantagioni di olio di palma, soia e allevamenti), ma anche l’impatto sociale ed economico sulle popolazioni locali.
In mezzo a tutto ciò, va sottolineato l’accordo europeo per vietare l’importazione nell’Unione di diversi prodotti, come cacao, caffè, soia, manzo o olio di palma, quando la loro produzione contribuisce alla deforestazione. Il primo Stato che si associa a questa problematica è il Brasile (che non ha firmato gli accordi di Glasgow), ma anche la Repubblica Democratica del Congo (che invece li ha firmati) è alle prese con difficoltà simili. Partendo dal Sud America, l’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro in una delle sue prime apparizioni pubbliche dopo le elezioni nel 2019 aveva detto che «l’Amazzonia è del Brasile e il resto del mondo non deve permettersi di dire cosa possiamo o non possiamo fare con la nostra terra».
Ora la leadership è cambiata e così il colore del partito che guida la Nazione. Il nuovo presidente di sinistra Luiz Inácio Lula da Silva ha imposto un drastico cambio di rotta rispetto al suo predecessore e a gennaio è stato registrato un calo della deforestazione del sessantuno per cento. In un solo mese di mandato, Lula ha ottenuto un risultato notevole, ma basterà?
Gli esperti dicono che non si può ancora parlare di un’inversione duratura di tendenza, ma un elemento oggettivo c’è: i dati satellitari preliminari raccolti dall’agenzia governativa di ricerca spaziale Inpe hanno segnalato 167 chilometri quadrati di foresta “eliminati” nella regione dell’Amazzonia. Si tratta di un evidente calo rispetto ai 430 chilometri quadrati persi nel gennaio 2022.
Un fondo per l’Amazzonia esiste, è amministrato dal Brasile e sostenuto principalmente da Norvegia e Germania. Riattivato dal governo Lula, era stato congelato nel 2019 all’inizio della presidenza Bolsonaro e poche settimane fa la ministra tedesca della Cooperazione economica e dello Sviluppo, Svenja Schulze, ha annunciato che Berlino avrebbe messo a disposizione altri trentotto milioni di dollari per il fondo.
La partenza di Lula è stata positiva, ma il personale dell’Istituto Brasiliano delle risorse naturali rinnovabili e ambientali (Ibama) avverte che potrebbero volerci anni prima che si riescano a raggiungere gli obiettivi di conservazione delle foreste (dopo che Bolsonaro ha tagliato i fondi e il personale delle agenzie chiave).
La seconda foresta pluviale più grande del mondo (“l’Amazzonia africana”) si trova nella Repubblica Democratica del Congo, in Africa Centrale. I metodi usati per distruggere questo polmone verde sono simili a quelli brasiliani, così come i motivi che spingono a farlo. Nel 2021, l’area del bacino del Congo ha registrato un aumento della deforestazione con una crescita di quasi il cinque percento in un periodo di dodici mesi. Lo evidenzia l’ultimo rapporto dell’Ong olandese Climate Focus: «La perdita di foreste nel bacino del Congo è aumentata rispetto agli anni precedenti», si legge.
Tra il 2015 e il 2020 il tasso di deforestazione è diminuito, per poi crescere nel 2021 di trentamila ettari (la superficie di Monaco di Baviera). Questa tendenza è più marcata in quattro Stati: Guinea Equatoriale, Repubblica Democratica del Congo, Camerun e Repubblica Centrafricana.
La Repubblica Centrafricana, in particolare, ha registrato un aumento della deforestazione pari al settantuno per cento: il risultato peggiore tra i Paesi osservati dal report. Solo due dei sei Stati oggetto dell’indagine hanno fatto eccezione: il Gabon – che è impegnato in un programma di protezione delle foreste – e la Repubblica del Congo (Congo-Brazzaville), che ha fatto registrato una diminuzione della perdita di copertura arborea.
A un anno dalla firma degli accordi di Glasgow, il mondo ha perso 6,8 milioni di ettari di foreste. Il risultato è un’emissione (totale) di quasi quattro miliardi di tonnellate di gas serra. I buoni propositi non mancano, ma la realtà è complessa e le azioni del presidente della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi, sono emblematiche.
Lo scorso luglio ha lanciato una gara d’appalto per la concessione di trenta permessi per l’estrazione di petrolio e gas sul suolo nazionale. Il presidente ha detto che il Paese si impegnerà a ridurre il suo impatto ambientale, ma che «ha anche bisogno di sviluppare la sua industria petrolifera per migliorare le condizioni di vita dei suoi cittadini, che sono tra i più poveri del mondo». Spesso, insomma, la necessità quotidiana batte la visione di lungo periodo. Ed è anche per questo che, al termine della Cop27, è stato istituito il fondo per il “Loss and damage”.