Le primarie del Partito democratico che hanno visto la vittoria di Elly Schlein sono significative su vari fronti. C’è, prima di tutto, il piano più immediato e forse più rilevante: il Partito democratico ha una nuova leadership, la prima femminile della sua storia e la più giovane mai avuta finora. Le due cose non sono ovviamente garanzia di nulla, in sé e per sé, ma potrebbero essere indicative di cambiamenti più profondi.
Tuttavia, l’elezione di Schlein, i dati con cui ha vinto, così come il contesto e la partecipazione che hanno portato alla sua elezione, meritano di essere analizzati più compiutamente per riflettere sullo strumento stesso delle primarie.
Guardiamo, prima di tutto, ai dati di affluenza: secondo il Partito democratico, hanno votato un milione e duecentomila persone. Si tratta, cioè, del numero più basso da quando esiste il Partito democratico, e basta rappresentare le varie tornate su un grafico a barre per avere una chiara visione del progressivo restringersi del numero di persone che partecipano:
Dagli oltre tre milioni e mezzo del trionfo di Veltroni si è passati al milione e due che ieri ha eletto Schlein. Malgrado, dunque, le primarie siano sempre seguite da dichiarazioni dei dirigenti del Partito democratico soddisfatti per «un momento di condivisione e ritrovo per la comunità del centro-sinistra», «una grande festa popolare» e altre espressioni equivalenti che si sentono in queste occasioni, è innegabile che la comunità e il popolo a cui ci si riferisce siano sempre più ristretti, con ogni congresso che batte il record negativo del precedente. Ciò ovviamente non intacca la legittimità della nuova leadership, ma solleva interrogativi (anche a Schlein stessa) sullo strumento delle primarie.
Il voto di ieri però ha anche altre particolarità. Per la prima volta, le primarie hanno completamente ribaltato il voto espresso nei congressi di circolo, cioè quello delle persone iscritte al Partito democratico. Nella base del partito, infatti, Bonaccini ha ottenuto la maggioranza assoluta con il 52,87 per cento dei votanti, staccando non di poco Schlein (34,88 per cento). Seguivano Cuperlo (otto per cento) e De Micheli (quattro per cento). Una maggioranza netta, e opposta a quella uscita dalle primarie, che vede Schlein vincere con il 53,8 per cento (Bonaccini arriva al 46,2 per cento). Non è la prima volta che i voti delle primarie aumentano il consenso di un candidato (pensiamo alla vittoria di Matteo Renzi), ma finora si è sempre trattato di confermare chi già era in testa: ieri è stata la prima volta che le primarie hanno contraddetto il voto degli iscritti.
Gli iscritti e le iscritte del Partito democratico, dunque, hanno da oggi una segretaria che, in larga parte, non hanno scelto – o quantomeno non come prima opzione –, e che è stata indicata anche da chi, potenzialmente, non ha mai votato quel partito e mai lo voterà. Per giunta, Schlein stessa ha lasciato il Partito democratico qualche anno fa per rifare la tessera solo in occasione della sua candidatura: se da un punto di vista politico questo può innescare processi d’innovazione, non si può non rilevare la singolarità di una situazione in cui una persona viene eletta a guida di un partito a cui non era iscritta fino a pochi giorni prima, grazie ai voti di chi potrebbe, alle prossime elezioni, non votarla.
Al tempo stesso, la comunità a cui le primarie si rivolgono ha scelto una persona diversa da quella scelta dalla maggioranza della classe dirigente del partito: la maggioranza delle persone appartenenti ai gruppi parlamentari, così come molti tra coloro che appartenevano agli amministratori e ai dirigenti nei livelli locali, hanno sostenuto Bonaccini, in linea con il voto espresso dalla base. Il fatto che l’elettorato di riferimento abbia invece fatto un’altra scelta solleva interrogativi tanto sulla capacità, del partito, di interpretare questa comunità, tanto sulle difficoltà che incontrerà Schlein nel tenere unito un partito che era orientato diversamente.
Non si tratta, qui, ovviamente, di sostenere l’illegittimità della vittoria o di esprimere un giudizio politico su Schlein. Il punto, più profondamente, è riflettere sullo strumento delle primarie. Uno strumento nato nella fase veltroniana per chiara emulazione del modello americano, in un momento e in un sistema elettorale dove chi era a capo del partito era anche automaticamente il candidato premier, e che oggi vede una partecipazione sempre più bassa, riesce davvero a far guadagnare iscritti ed elettorato? Coinvolgere persone non iscritte a un partito, e il cui voto è solo potenziale, è lo strumento giusto per scegliere la leadership, anche quando la persona eletta si ritrova a guidare militanti che avrebbero preferito altro? Qual è il senso profondo della militanza, con tutto ciò che comporta in termini relazionali, progettuali e di tempo, di fronte a uno scenario del genere? Se le primarie si riferiscono a una generale comunità del centrosinistra, come si definiscono i confini di questa comunità, che a oggi in base alle regole coincide con la totalità dell’elettorato italiano?
Ogni risposta a queste domande è lecita. È difficile però non notare che gli elementi di crisi sono molteplici e profondi. E forse, laicamente, oggi più di ieri, si può porre la domanda sul senso stesso delle primarie, su una loro riforma, su un loro rilancio, o sul loro abbandono in forme più tradizionali, o più nuove, della selezione della leadership di un partito.