Lo avevamo già temuto nell’estate 2022, tra fontane spente e restrizioni sull’acqua ludica. Parliamo dello spettro del razionamento idrico, che nel 2023 è tornato con un anticipo decisamente poco confortante. L’anno scorso se ne parlava a fine giugno, mentre ora è già un tema in cima all’attualità. Quella della siccità è ormai una condizione duratura, più che un’emergenza, ma la situazione è talmente critica che è arrivato il momento di pensare a come limitare i danni. Indipendentemente dalle precipitazioni primaverili, a cui è appeso il destino della prossima estate.
Meno (o niente) acqua in determinate aree e in determinati orari, solitamente notturni, a causa dell’interruzione totale o parziale della rete elettrica che ne consente l’erogazione. Si comincia prima con le utenze posizionate a una quota più alta rispetto alle fonti di approvvigionamento, per poi raggiungere il resto della cittadinanza. Uno scenario quasi da film che ora, con la primavera ormai alle porte, è sui tavoli di governi e amministrazioni locali.
Uno degli ultimi a menzionarlo è stato Luca Zaia, presidente di Regione Veneto: «Se non dovesse cambiare la situazione meteorologica, dovremo procedere con provvedimenti un po’ più drastici, limitando l’uso dell’acqua solo per uso civico e per le attività strettamente connesse alle persone. Siamo in una situazione tragica, e penso che il tema del razionamento si stia avvicinando sempre di più», ha detto domenica 12 marzo.
Una soluzione del genere è davvero percorribile? In emergenza, spiega a Linkiesta il professor Marco Olivi, direttore del master in Tutela e gestione della risorsa idrica dell’Università Ca’Foscari di Venezia, «è legittimo adottare strumenti che deroghino agli strumenti ordinari del diritto. Serve però molta cautela nell’uso degli strumenti emergenziali: questa siccità non è una situazione momentanea. Bisogna mettere in campo anche strumenti ordinari, partendo dalla normativa esistente».
Parlando di razionamento, continua l’esperto, «bisogna innanzitutto specificare che la somma di piccoli consumi fa un grande consumo. E poi c’è la questione della responsabilità: occorre che ci sia una consapevolezza che l’acqua è una risorsa scarsa. E, come per tutte le risorse scarse, comporta delle scelte e dei comportamenti responsabili. Questa parola deriva da “rispondere”: render conto di quello che si fa. Vale per i singoli cittadini e per i governi».
Siamo ancora nel campo delle ipotesi ed è difficile capire come potrebbe articolarsi una misura simile, ma il solo fatto che se ne stia parlando in inverno dovrebbe far riflettere. In Italia, poi, gli effetti della crisi climatica (poca neve, scarse precipitazioni, temperature superiori alla norma) si sommano a una rete idrica che è notoriamente un colabrodo (sprechiamo il 36,2 per cento dell’acqua immessa nelle tubature, e il sessanta per cento delle infrastrutture è stato messo in posa più di trent’anni fa) e a un settore idroelettrico ancora zoppicante dopo la siccità del 2022 (da gennaio ad agosto gli impianti italiani avevano prodotto quasi il quaranta per cento di energia in meno rispetto all’anno prima).
A meno di una settimana dalla fine di uno degli inverni più caldi mai registrati, il bilancio è impietoso. Stando ai dati della Fondazione Cima, la quantità d’acqua stoccata sotto forma di neve è a livelli che dovrebbero registrarsi a metà maggio. Tra febbraio e marzo, nel giro di una ventina di giorni, si è sciolto circa un terzo della (poca) neve caduta quest’anno. La carenza più grave sta interessando le Alpi, il serbatoio in grado di fornire d’acqua dolce il bacino del Po. Quest’ultimo ospita circa la metà delle risorse idriche italiane.
Il deficit di neve su questi monti è pari al -69 per cento rispetto alla media degli ultimi dodici anni. Come spiega Luigi Bisi, presidente del Consorzio di bonifica di Piacenza, al termine della stagione invernale la portata normale del principale fiume italiano sarebbe di mille metri cubi al secondo, ma ora è di trecento metri cubi al secondo. Secondo Coldiretti, i danni all’agricoltura dovuti alla siccità potrebbero ammontare a quota sei miliardi di euro: il dieci per cento del valore della produzione agricola nazionale andrebbe in fumo.
L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), in uno dei suoi ultimi bollettini, mostra inoltre che in nessuna zona del Paese c’è una condizione normale a livello di «severità idrica»: la situazione più critica si osserva nei distretti del fiume Po, delle Alpi orientali, dell’Appennino settentrionale e dell’Appennino centrale. Secondo il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), una percentuale fra il sei e il quindici per cento della popolazione italiana vive in territori esposti ad una siccità severa o estrema.
Alla luce di questi numeri, preoccupanti sia per l’irrigazione sia per l’approvvigionamento di acqua potabile in vista dell’estate, si cominciano a invocare misure e scenari più drastici. «Dati alla mano, è lecito ritenere che, per almeno tre milioni e mezzo di italiani, l’acqua dal rubinetto non può più essere data per scontata», ha detto Francesco Vincenzi, Presidente dell’Associazione nazionale dei consorzi di bacino (Anbi), in un comunicato diramato a fine febbraio.
A Palazzo Chigi, il 1° marzo, si è tenuto un vertice da cui sono nate una serie di misure straordinarie per combattere la siccità, che il governo continua erroneamente a trattare come una crisi temporanea e straordinaria. Verrà nominato un Commissario straordinario alla siccità con poteri esecutivi e arriverà un piano idrico straordinario nazionale, d’intesa con le Regioni e gli enti territoriali, per individuare le priorità di intervento. A distanza di quasi due settimane, non ci sono novità in merito, ma – secondo il Corriere della Sera – la nomina di questo «super commissario» potrebbe portare al razionamento dell’acqua.
A Roma, tuttavia, non sembrano avere le idee chiare in merito. «Serve un ragionamento per un intervento immediato, che significherà anche razionamenti sulla distribuzione della risorsa. È necessario un ragionamento integrato, che significa avere acqua da bere, acqua per irrigare e per produrre energia», ha detto Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, a Radio 24.
A pochi giorni di distanza, sempre a Radio 24, Nello Musumeci, ministro per la Protezione civile e le Politiche del mare, non si è mostrato sulla stessa lunghezza d’onda del “collega” di governo: «Il razionamento dell’acqua è una estrema ipotesi che al momento non si presenta. Si può superare la contingenza dell’estate ma bisogna pensare di dotare le aziende di bacini per l’acqua», ha detto. Secondo Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, il governo dovrebbe fare «un piano di razionamento, come ha fatto un anno fa col gas».
Una delle prime Regioni a sperimentare il razionamento potrebbe essere la Sicilia. Intervistato da Repubblica, il segretario generale dell’Autorità di bacino del distretto idrografico Leonardo Santoro ha svelato che questo scenario potrebbe concretizzarsi a maggio: i bacini sono vuoti per oltre il sessanta per cento e le scorte, in caso di scarse precipitazioni in primavera, potrebbero non bastare (sia per l’agricoltura, sia per gli usi civili).
In attesa delle decisioni delle amministrazioni regionali e di Roma, bisogna prendere atto di un aspetto essenziale: la siccità attuale è legata alla crisi climatica. Sembra quasi scontato dirlo, ma un rapporto causa-effetto in questo campo è difficile da certificare. Ci è riuscito recentemente uno studio condotto da due ricercatori Centre national de la recherche scientifique (Cnrs). I risultati? Il riscaldamento globale innescato dalle attività antropiche sta contribuendo ad aggravare questi fenomeni siccitosi, che in passato erano più brevi e coinvolgevano superfici meno estese. Non è un’emergenza, ma una nuova realtà.