Dietro l’affollato flashmob al Giardino dei Giusti di domenica scorsa ci sono delle attiviste iraniane che da sei mesi scendono ogni giorno per le strade di Milano per mantenere accesi i riflettori sulle proteste contro il regime di Teheran.
L’evento è stato organizzato grazie alla partnership fra l’associazione Maana e la Fondazione Gariwo, in solidarietà con le ragazze di Ekbatan che hanno ballato fra gli edifici popolari di un quartiere periferico di Teheran, sulle note di Calm Down.
La danza che ha coinvolto tante donne italiane, femministe e politiche, fra cui la deputata e segretaria del Partito democratico Milano Metropolitana Silvia Roggiani, ha assunto una dimensione quasi catartica. La loro battaglia per la libertà – tenace come quella dell’associazione ucraina UaMi che ogni giorno si ritrova in piazza Duomo per protestare contro l’invasione russa, cui Linkiesta ha dedicato un evento il 24 febbraio scorso, a un anno dall’inizio della guerra – non si ferma mai.
A guidare il flashmob c’era Saba Poori, 23 anni, che a Linkiesta ha raccontato la sua storia di ballerina, venuta in Italia per fare quello che non poteva fare nel suo Paese. «Prima dell’instaurazione della Repubblica Islamica, mia madre era una ballerina. Poi la danza è stata vietata. Io ho cominciato a ballare quando avevo quattro anni, in segreto. Sono venuta in Italia dove ho potuto studiare all’Accademia di danza contemporanea Susanna Beltrami. Tornata in Iran, mi hanno preso il passaporto e interrogato a lungo, mi hanno fatto firmare dei fogli in cui si affermava che la danza in Iran era vietata e se avessi voluto ballare fuori dal territorio iraniano non avrei più potuto tornare indietro».
E così è stato perché una volta scoppiata la rivolta, Saba Poori ha deciso di restare in Italia, dove è diventata un volto della protesta in nome di Mahsa Amini e del potente slogan scandito anche in tutte le piazze europee «donna, vita, libertà».
L’associazione Maana che ha animato il flashmob nel Giardino dei Giusti è formata soprattutto da donne, quasi tutte artiste, che da sei mesi continuano a intrecciare relazioni e a parlare della rivolta iraniana.
L’8 marzo le attiviste di Maana hanno riempito la Sala Grande del teatro Parenti per la visione del documentario “Be my voice” diretto da Nahid Persson, dedicato alla storia drammatica e travagliata di Masih Alinejad, che è stata la pioniera della battaglia contro l’obbligo di indossare lo hijab con il suo movimento My Stealhy freedom (Libertà furtiva). L’associazione Maana è guidata da Rayhane Tabrizi, deal manager di una multinazionale tedesca e, fra gli altri, da una coppia di artisti, Delshad Marsous, fashion designer e suo marito Taher Nikkhah Abyaneh, visual artist molto noto in Iran. Entrambi hanno partecipato alla protesta del Movimento Verde nel 2009. «Allora credevamo si potessero ottenere delle riforme in Iran, ma poi siamo stati costretti a scappare», spiega Delshad Marsous. «Ora invece pensiamo ci voglia un cambio di regime per avere la democrazia in Iran perché nessuna riforma può cambiare uno stato teocratico».
Fra i volti della protesta di Maana ci sono anche Maryam, curdo-iraniana e art advisor, un tenore della Scala, Ramtin Ghazavi, e Bahar, insegnante di inglese. Dove c’è una protesta laica per sostenere la liberazione dell’Iran, ci sono loro, le attiviste di Maana. Instancabili. E ora, insieme ad altri attivisti, stanno divulgando un caso ancora ignorato in Italia di Zaniar Tondro, il diciottenne curdo-iraniano ferito il 20 settembre 2022 mentre partecipava a una manifestazione di protesta a Piranshahr: non è andato in ospedale per non rischiare di essere arrestato. Ferito di nuovo, ha perso l’uso dell’occhio destro. Dopo aver subito molte pressioni da parte dei Pasdaran è stato costretto a lasciare l’Iran.
Zaniar Tondro ha cercato di raggiungere l’Europa il 23 marzo scorso con una piccola imbarcazione che però è stata rintracciata dalla polizia greca e consegnata alle autorità turche. Ora, sebbene molto malato, si trova nel campo profughi di Muğla in Turchia dove non riceve l’assistenza medica adeguata e rischia di essere riconsegnato alle autorità iraniane. «Il flashmob è servito a unire tante persone della diaspora iraniana con diversi background etnici e italiani per fare fronte comune e sostenere la battaglia per la democrazia in Iran», spiega Rayhane Tabrizi. Perché, come ha sostenuto il presidente di Gariwo, Gabriele Nissim, ci vuole uno sforzo di immaginazione per capire cosa stiano vivendo le donne e tutto il popolo iraniano. «Questa battaglia è fondamentale per tutte le donne che, in Afghanistan come in Iran, desiderano affermare la loro liberà. È una battaglia epocale, che non ha meno impatto della situazione dell’Ucraina. Si sta decidendo la libertà del pianeta», ha osservato Nissim.
Per questo motivo Maana non si ferma e, insieme a tutti quelli che sognano la fine del regime degli Ayatollah, stanno aiutando quelli che scappano o sono costretti a lasciare l’Iran. E ogni giorno, continuano a chiedere all’Occidente di non voltare le spalle al popolo iraniano e di inserire il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, IRGC, nella lista dei terroristi. In nome di Mahsa Amini, ma per la libertà di tutti.
La foto di anteprima è stata presa dal sito della Fondazione Gariwo