Le parole sono importanti Non è sintetica la carne che dice di esserlo

Il nostro articolo sul gastronazionalismo ha prodotto molte riflessioni nei nostri lettori. Una in particolare ci ha colpiti e riflette sull’importanza dei termini che utilizziamo per definire le novità

Stiamo da qualche giorno riflettendo sul gastronazionalismo, qui a Gastronomika. E cerchiamo di comprenderne le radici, e di estirparne il senso. È un lavoro complesso, perché la realtà lo è e spiegarla per slogan è molto più facile che approfondirne il significato.
Stiamo ragionando su carne sintetica, ma anche su farine di grilli, su sostenibilità, su candidature UNESCO e su quanto tutto quello che passa dal cibo sia diventato strumento politico.

Tanti i messaggi che ci arrivano, e che stiamo cercando di sistematizzare, perché alcuni sono preziosi e vorremmo che alimentassero il dibattito e portassero ai nostri lettori e a noi delle occasioni di confronto e di riflessione ulteriore, su un tema che va approfondito e va reso centrale nel dibattito pubblico. Riteniamo da sempre che il cibo e la sua narrazione vadano ben al di là delle ricette e delle recensioni, e mai come in questi giorni ci stiamo rendendo conto di quanta politica ci sia, per esempio, nella scelta di vietare la produzione di carne sintetica o di demonizzare grilli e affini.

Ma iniziamo dai termini, perché per confrontarci dobbiamo necessariamente passare attraverso il linguaggio: e forse è proprio qui che troviamo un primo motivo di dissidio, ed è questa la riflessione che abbiamo condiviso con Riccardo Felicetti, produttore trentino di pasta e nostro lettore, che ce l’ha sollecitata, in risposta ai nostri articoli.

Nella scelta delle parole con cui definiamo le cose diamo già un giudizio su quello che stiamo indicando. E se in alcune occasioni questo è dovuto a retaggi del passato, in altri casi le scelte sono recenti, consapevoli e – forse – colpevoli e strumentali.

Come ci fa notare Felicetti, e come ci aveva già ben spiegato anche il mugnaio Gianluca Pasini, dire che la farina è “raffinata” dà subito una valenza negativa a questo alimento: la parola ci fa immediatamente pensare alle raffinerie, a pratiche chimiche di sbiancamento, a modalità di produzione industriali. Solo approfondendo il discorso scopriremo che la farina non si raffina ma si setaccia, con pratiche meccaniche, e non c’è alcun processo di sbiancamento nella sua produzione.
Sui grilli il passaggio è stato fatto, invece, ma anche qui c’è un discorso politico e di lobby, probabilmente: da farina di grillo si è passati a polvere di grillo, così che non ci siano sovrapposizioni possibili con la produzione di farina da grano. Che è poi la stessa cosa che è successa con i derivati vegetali della carne, che spesso prendono il nome da qualcosa che conosciamo, dando però una definizione fuorviante sul reale contenuto delle confezioni.

Come sottolinea Felicetti: «Non chiamiamo pelle sintetica quella sviluppata da cellule staminali e fatta in laboratorio, e che consente guarigioni rapide da traumi o ustioni. È quindi carne a tutti gli effetti quella coltivata in laboratorio da cellule animali, che ci permette di avere nutrimento proteico senza uccidere gli animali e pesando meno sul pianeta. Ma se la chiami “sintetica” pensi subito a un prodotto chimico costruito, che spaventa e disturba. Qualcuno di bravo deve aiutare a trovare definizioni “potabili” e neutre, in grado di spiegare e identificare le nuove cose che creiamo, ma che non abbiano immediatamente una valenza negativa o che crea distorsione di visione e comprensione».

Una tesi che ci sentiamo di sposare, e che partendo dalle parole ci può aiutare a comprendere meglio il mondo che cambia intorno a noi. Rispetto al tema, nello specifico, chiamarla sintetica sta davvero fuorviando il giudizio dell’opinione pubblica su un tema importante. Perché, semplicemente, questa carne sintetica non è: per la sua produzione, infatti, si parte da una cellula animale che progredisce in laboratorio, e non in un animale allevato, grazie a un siero di origine animale e a un materiale di supporto, vegetale. Le cellule di muscolo, isolate con un bioreattore, crescono come crescerebbero su un animale, ma senza dover uccidere nessun essere vivente. Arriva sul mercato, come tutti gli alimenti, avendo superato ogni test sanitario: vuol dire che è considerata sicura e non potrebbe essere che così, per come è prodotta. Di sicuro il protezionismo ci farà rimanere indietro rispetto ad altri Paesi, e ci costringerà alla rincorsa quando questo prodotto sarà comune. Il gusto non è lo stesso? Probabilmente, ma come abbiamo spiegato in un’intervista a Stefania Radman “questa produzione non è destinata a una clientela che pensa al gusto, è un’altra cosa. Qui si tratta di provare a trovare una soluzione per sfamare il mondo avendo un impatto meno significativo sul pianeta. Perché non farlo?”.

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